Il Circo torna in città. Dopo un 2013 “ognun per sé” dedicato ai rispettivi progetti solisti (Appino, realizzato in collaborazione con Giulio Favero ed eponimo vincitore della targa Tenco e l’interessantissimo La notte dei Lunghi Coltelli di Karim Qqru). Quest’anno di reclusione ha significato un’inversione nel metodo creativo al quale si sono attenuti i tre pisani fino ad oggi. Si passa dal parto di un disco ogni nove mesi di tour ad una riflessione in sala prove, più approfondita, fatta di programmazione, rielaborazione dei testi, sempre personali nelle melodie, ma anche glocali nelle tematiche, tra lo zeitgeist interno ai confini della Nostra Italica Nazione ed il particolare della vita quotidiana. “Questo disco è artigianato”, dichiarano gli Zen Circus, nato interamente dalle loro mani e menti, con l’intenzione di inscatolare l’energia e la naturalezza caratteristica dei loro live, operazione che evidentemente non era mai riuscita fino in fondo. Il fatto che i loro live siano una bomba è fuori da ogni discussione ma il tentativo di intavolare in questo album un discorso di cui non si fosse già parlato, invece, è un’operazione il cui buon esito è altalenante. Si parte con Viva, e credo che la totalità di un ipotetico pubblico interessato a questo album non possa esimersi dal dire “c’hai ragione Andre’…”, tranne magari qualche pentastellato, ascoltare per credere (ancora non fioccano le polemiche su twitter?). È un singolo perfetto, potente e coinvolgente, che parla di tutti i Viva che piacciono tanto al nostro popolo e dei quali agli Zen Circus non frega un bel niente. L’intensità cala in Postumia, seguita da Canzone contro la natura. La natura di cui si parla qui è quella “che fa davvero paura”, quella con cui ogni uomo è in contrasto, come sottolineano le parole del cameo di Giuseppe Ungaretti, riprese da un’intervista di Pasolini inserita nel finale della traccia. Vai vai vai! è una sorta di omaggio alla canzone folk, il cui tema di chitarra dalle tinte partenopee accompagna la breve storia di una disillusione. Il disco prosegue senza sussulti (eccezion fatta per la bestemmia censurata di Giorgio Canali in No Way), partendo come un fiume in piena da reminescenze punk-rock (mai così lontani i tempi del “ti ricordi gli Hüsker Du?”) per poi spandersi nel mare del songwriting. L’attitudine citazionista de l’anarchico e il generale, in cui la linea vocale ricalca la deandreiana il pescatore ne è la conferma. Il trio parla della proprio realtà, così vicina alla realtà di tutti noi. Non a caso l’io poetico slitta da personificazioni di caratteri allegorici (Dalì) per poi tornare in bocca allo stesso Appino (Sestri Levante). Niente di nuovo in generale, ma probabilmente il trio pisano sembra aver trovato una propria dimensione, fatta di immediatezza, di musica vera, dalla quale i suddetti non avvertono di doversi distaccare. E a gran parte delle persone che hanno imparato ad amarli andrà sicuramente bene così.
di Bernardo Mattioni