Con i C+C=Maxigross puoi trovare di tutto, un po’ come nel quasi omonimo supermercato da cui deriva l’equazione che dà il nome alla band. Un vasto assortimento di stili, di sound presi qua e là dagli innumerevoli scaffali della storia del rock e dai reparti del mondo (e con questo pongo fine alla già insostenibile metafora musica-supermercato…).
Pamukkale in E potrebbe averla composta un giovane cantautore losangelino con origini scozzesi di ritorno dalla Turchia. In cinque minuti riporta alla mente, in ordine, Elliot Smith e Mark Linkous, e persino un falsetto à la Thom Yorke. Charleroi poulet ha sapore britannico più che belga: un pop-rock naif come si serve da decenni in terra d’Albione, e con un allegro siparietto cori e fisarmonica in chiusura. Uno Tempo e Hills, hills, hills portano l’album su un sound più acidino, dalle parti degli Animal Collective di Feels o dei Flaming Lips meno eccentrici. Influenze che li apparentano alla lontana ai Jennifer Gentle, band di Marco Fasolo, curatore di produzione e missaggio di alcune tracce di Ruvain.
Seguono due intermezzi post-moderni, che vanno dal vagamente mistico-sciamanico (A Freak Can) all’adolescenziale (Lesha!Keyoo!See-ya!); poi il tentativo di integrare la lingua italiana (L’Attesa di Maicol) con un ulteriore cambio netto di timbri e scenario.
Nella seconda parte dell’album si staziona maggiormente nell’orbita folk-rock. Il folk è quello anglofono, ovviamente, non aspettatevi la tradizione musicale lessinica (l’incursione della lingua cimbra è solo un vezzo). Siamo in territori vicini tanto alle manifestazioni folk-pop britanniche (Noah and the Whale, Mumford and Son), che all’underground californiano dei nuovi jug buskers, o al freak-folk multiculturale (Vadoinmessico, ma anche Devendra Banhart). Anche quando si innestano culture musicali e timbri differenti, come lo spagnolo in José, si adottano modalità che appartengono a esperienze di nu-folk, alt-folk, post-folk, prefissoacaso-folk. Ruvain è una creatura chimerica, un collage frankensteiniano realizzato con disinvoltura e creatività. Sul terreno la band dissemina burrose madeleine proustiane sbriciolate, che non conviene star lì a recuperare una per una, presi dal flusso di ricordi e rimandi e rassomiglianze; abbandonatevi all’ascolto e non pensateci tanto su, non c’è un senso ulteriore e profondo da cogliere, è tutto lì, limpidamente presentato al vostro ascolto.
Nota negativa per la seconda parte del medlay Testi’s Baker/Jung Neil: kraut rock poco stimolante e svolto non al meglio. La conclusiva Wait me to Arrive è una buona coda… noi li prendiamo in parola e li aspetteremo. Dopo il primo Singar (“cantare”, in dialetto cimbro) adesso Ruvain (“rumoreggiare”). Le premesse sono buone, perché è di questo che si tratta: la miglior band emergente all’Arezzo Wave 2012 ha realizzato un album che è un’ulteriore promessa, rimandando ancora un più saldo approdo.
di Alberto Sartore