Li ho persi molte volte. Per sciagurate coincidenze ci sono scivolato sopra, forse senza troppi rimpianti. Sta di fatto che vederli per dovere giornalistico, di cronaca, mi è sembrata l’occasione per seguirli ‘seriamente’. Insomma, quelle cose là, taccuino, macchina fotografica e un bel gradino sotto al culo, seduto ad annotare scaletta etc.
Non sudare, non mettere a rischio la camera, non fumare nel locale. Credetemi, è stato impossibile. La mia bella collanina di ‘non’ è esplosa e le perle schizzate, impazzite sotto le gambe, in quel marasma.. Si è spezzata anche l’alta opinione che avevo di loro, sostituita da una ancora più maestosa…
Il sipario dell’Orion, Ciampino, si è alzato sugli Orrori verso le 23.15 e l’impatto è stato fragoroso. Dopo la calda accoglienza, riservata in particolare a Capovilla e al suo fondo di bicchiere, sono terminati i convenevoli. È un album diverso da A Sangue freddo. Il Mondo nuovo di qua, Il Mondo Nuovo di là. Se ne sentivano tante, bisbigliate, nel silenzio scenico durato la teatralità di una sigaretta. Chiacchiere da bar. Spazzate via, annichilite da un inizio tanto tempestoso da sembrare l’inferno. Una scaletta al tritolo nei primi sette sacramenti, tratti dal nuovo e dal vecchio album, hanno rimestato le viscere di quelli nell’ “occhio” del pubblico, i più fomentati. Non vedo l’ora, Per nessuno, Skopje, A sangue freddo. Una gatling. Pierpaolo Capovilla, un cristo oscuro e sbandato, proprio lì, dentro, davanti, sopra al pubblico a creare stati di esaltazione e attimi di partecipazione feroce. Non si risparmia, stringe tutto quello che gli rimestano le prime file, tramuta il sudore in bottigliette d’acqua, per la platea, nel caldo omicida. Spinto da un carisma nero, lui è la forma fisica della sua musica. Gionata Mirai e gli altri sono la tempesta (l’acustica era discreta, da rivedere l’amplificazione vocale, a tratti soverchiata).
La comunione raggiunge un livello metafisico, iniziamo a straziarci sul finale di È colpa mia, ululato in branco, per prepararci all’ascolto di un sermone di cui non dovremmo fare a meno, la storia di Ion, per il quale il frontman pretende e spende un silenzio importante, per sensibilizzare chi è ignorante e accusarci, in piccolo, tutti. «Il silenzio è prezioso, il silenzio narra». L’accusa, verso il proprio riflesso e verso gli altri, non sulla morte del rumeno, nella fattispecie. É una colpevolezza introspettiva, ognuno nel suo personale sa che rimostranze presentarsi, e questo è molto più di un concerto rock. Di un concerto rock in italiano. Siamo vivi. Ce lo ricorda, con una cattiveria educativa, ed è significativo urlare di assenso, da quando hanno confezionato un tasto per tutto. Si, ci prende un po’ per il culo anche su facebook. Non sopporta i mi-piace compulsivi, neanche indirizzati a loro. Il pubblico è suo, con abnegazione.
Altri tre pezzi e il Teatro simula la fine: la realtà è che sono madidi e fumatori, anche loro, e perciò alcuni minuti fumanti e riemergono per dare gli ultimi gradi a una scaletta già convincente. Compagna Teresa. Ragazze si graffiano e mandano affanculo: un’istantanea del pogo assassino che stava inghiottendo tutti, senza rispetto. E si chiude, La Canzone di Tom. Capovilla sdraiato su di noi, come un cristo nero sulle folle. Ed ho avuto la sensazione che qualcosa di simile, sotto questi chiari di luna, non si vede spesso. L’orrore tramutato in sublime.
Pablo