A cura di Lorenzo Briotti (lorenzobriotti@yahoo-it)
Phil Pearlman è stato un pioniere nell’America musicale degli anni 60. Nei primi anni del decennio inizia a suonare in un gruppo surf dal nome Phil & The Flakes, ma è dal 1967 che si inserisce nel filone dei musicisti più anticonvenzionali e sperimentali della scena californiana.
In quell’anno esce un album dal titolo The beat Of the earth, un manifesto minore di psichedelia free form e di improvvisazione sonora che ci riporta a quello che stavano facendo i Velvet Underground con “White Light, White Heat”, il primo Frank Zappa, gli USA di Joe Byrd, o i newyorkesi Silver Apples.
Il disco consiste in due lunghe suite dal titolo “This is An Artistic Statement Pt 1 & 2”, in cui vengono suonati una miriade di strumenti acustici ed elettrici. Se la suite è la forma musicale scelta, i due brani hanno un tema melodico che ricorre spesso all’interno del disco e che lo rende abbastanza ascoltabile.
Dalla metà degli anni ottanta The beat of the earth è stato uno dei pezzi da novanta tra i collezionisti più incalliti, pagato a suon di centinaia di dollari.
Per tutti i 60, John Pearlman continua a suonare e a cambiare la formazione dei musicisti che lo accompagnano nei suoi esperimenti sonori: tra questi colui che è sempre presente è il suo ingegnere del suono, tale Joe Sidore.
Arriviamo al 1970 e un secondo progetto vede la luce: ora Pearlman ha formato gli Electric Hole ed ha abbandonato in parte l’improvvisazione in studio e la registrazione in presa diretta del primo album a favore di due sole composizioni, “The golden hour”, divisa in 4 parti e “Love will find a way”, divisa in 3 di parti. Ora, può sembrare strano, ma le sette tracce assomigliano a delle canzoni vere e proprie.
Perlman suona il sitar e crea muri di chitarre fuzz: ma è la tecnica utilizzata per creare suoni fuori dalla norma che stupisce. Per citare la più innovativa, Pearlman crea un circuito elettrico tra il suo amplificatore Fender e un organo per bambini con cui suona due settimane e poi se ne disfa “facendolo esplodere”.
Insomma siamo su un terreno alquanto interessante, anche perché i due dischi sono alquanto eclettici ma possono essere ascoltati anche da chi non ama molto la sperimentazione.
La storia tuttavia non finisce qui: dai primi anni 70, Pearlman suona con una nuova formazione che non improvvisa più ma scrive e suona canzoni più classiche. Si chiamano Relatively Clean Rivers e nel 1975 registrano anche un album, definito come spesso accade per dischi pieno di radici musicali molto americane, di “rock rurale”.
L’omonimo album dei Relatively Clean Rivers è un disco ricco di talento e rappresenta un’istantanea sulla musica californiana tra i 60 e la prima metà dei 70. Stampato all’epoca solo in 500 copie, è stato ristampato qualche anno fa dalla Radioactive records (anche The Beat of The earth è stato ristampato dalla Radioactive records, etichetta inglese specializzata in bootleg) ed è super consigliato per gli amanti della west coast e del country rock sullo stile dei CSNY di “Deja vu” o dei Grateful Dead di “Workingman’s dead” o di “American Beauty”.