Paolo Villaggio, dopo il grande Totò, probabilmente è, tra i viventi, il sommo comico, oggigiorno meno in vista e televisivo ma capace ancora d’incarnare stereotipi da varietà con raffinata originalità, lontano da platee ipnotizzate con sermoni biblici o danteschi e, soprattutto, ferrato nello scrivere e argomentare. Qui si cimenta in libere interpretazioni biografiche per scandire una “libertà di pensiero” troppo spesso all’avanguardia e relegata dal potere, non di rado bruciata nei roghi dell’inquisizione. Vite che scorrono arricchite d’iperboli surreali e riconducono alla storia per quel che è, nel suo essere più tangibile col quotidiano e goffo misurarsi umano. Socrate viene fotografato in un peripatetico parapiglia cadenzato da amori non platonici e da una moglie ossessiva. S’imbatte ciclicamente tra sofisti, stoici, epicurei e meno note ma già vivide schiere di “stronzi”. Diogene, l’emarginato nella botte, è la ciliegina che compare nel culmine di ogni messa in scena. Giulio Cesare, arrampicatore sociale oriundo del Sannio, soggiorna alla meglio in una pensione della Suburra, “voglia di rivincita e una rabbia magnifiche” ne sanciscono un successo sempre imbarazzato dalla ricerca di frasi memorabili da tramandare. Non mancano le avvisaglie di una Telethon ante-litteram e Gesù che viene riproposto in una dicotomia narrativa, una sorta di reality “classico” sviluppato tra le bisbocce imperiali di Tiberio a Capri parallelamente a quanto accade in Galilea, con tanto di coincidente crocifissione ad Ercolano di Fabio, portalettere altrettanto invasato di fratellanza e non violenza. Un Messia, in ogni caso, figlio comprensibilmente difficile da gestire per l’integrato artigiano Giuseppe. Postilla su “che fine ha fatto” per tutti. La più vasta è la sezione del Nazzareno, con chiose per i vari personaggi e voluta chiusa sul rivalutato Giuda, il più colto e poliglotta, con un certo futuro da evangelizzatore abnegato al ruolo infame del traditore. “La santità di Giuda è la più sublime, perché manca di ambizione e vanità”. Dall’appena unificato regno d’Aragona e Castiglia i sogni di Cristobal prendono corpo tra estenuanti trattative con un’insaziabile e capricciosa regina. Colombo porta il cognome della madre, ex prostituta di via del Campo, e complessi di rango nobiliare, non disdegna il suo mozzo e, una volta scoperta l’America, fa baldorie con allucinogeni insieme agli indigeni. “Che fine ha fatto”? Muore a seguito “di una malattia venerea contratta durante la sua relazione con Isabella di Castiglia”. Savonarola impersonifica lo spirito di contraddizione, leghista della prima ora con l’inevitabile conseguenza che allora, la “Roma ladrona”, coincideva con quella papalina. Segue il sacrificio di Giordano Bruno “grafomane insidiosissimo”, prototipo di “scritti corsari” e un Galileo che abiura salvando la pelle e taluni suoi particolari gusti maturati col femminile. Quindi ci si chiede “che fine hanno fatto realmente” altri, come l’Iscariota, ritenuti tutto tondi negativi. Ne viene fuori un Hitler inconsapevole e immortale, a monito di quanto sia insidioso e strisciante il male. Rivisitati anche i più positivi Archimede, Pietro Micca e Garibaldi. Ghandi risulterebbe eliminato da un dietologo, a causa della scoperta dei digiuni. A tergo appare “che fine potrebbero fare” e sono tre i contemporanei ipotizzati al futuro: Rita Levi Montalcini, Prodi e Berlusconi. La prima celebrata nel centenario, il secondo scomparso in bicicletta e il terzo nominato papa nel 2026, il tutto con un Veltroni presidente della Repubblica che aleggia dietro le quinte. Ovunque si percepiscono inevitabili retaggi di Fantozzi, voltagabbana archetipo italico-fancazzista, onnipresente granello nel deserto del parastato con la detestata corazzata Potëmkin rielaborata nell’allegoria del dirigismo. Quella dell’autore, in sostanza, permane una fervida intelligenza, caustica e brillante, compiutamente irriverente e colta, che diverte e sollecita. Humus per i più giovani, orfani di valori culturali, oggi più di allora. Sul “che fine faremo tutti”, del resto, c’è una seria minaccia che incombe, guarda caso, sulla ”libertà di pensiero”.
(Enrico Pietrangeli)