Ci siamo interrogati su quei generi musicali che abbiano mantenuto un’anima DIY e abbiamo deciso di soffermarci sulla musica Chiptune, o 8 bit che dir si voglia. Un mondo ancora buio e inesplorato che ha veramente tanto da raccontare.
Incontriamo Fabio Bortolotti in arte Kenobit per aiutarci ad accendere un piccolo riflettore.
È da qualche tempo che mi sto interessando riguardo il genere e sono ormai pronto a qualsiasi risposta, come ti sei approcciato alla chiptune?
La origin story affonda le radici nei Vithra, la mia band punk, circa 15 anni fa. Eravamo squattrinati e ci eravamo rotti le palle di spendere soldi in studi di registrazione. Quindi trascinammo gli strumenti, gli ampli e il mio PC nella cantina del cantante, mettendo su uno studio di fortuna. Io ero il batterista, ma anche il nerd in carica, quindi mi occupai di Cubase, Fruity Loops e affini. Imparando a registrare con il computer, inevitabilmente feci amicizia con il lato più elettronico della musica. Qualche anno dopo mi capitò un VST orrendo che emulava male i suoni del vecchio NES. Lo usai per fare una cover velocissima della sigla de “Il Pranzo è Servito” di Corrado (giuro), che poi caricai su 8 Bit Collective, un sito intorno al quale si stava radunando tutta l’ondata di chiptune americana. La cover venne avvistata da Arottenbit, un altro italiano della micromusic, già attivissimo ai tempi. Ricordo il suo commento: “Chi sei? Dove sei? Dobbiamo conoscerci.” Il caso volle che il giorno dopo Arottenbit suonasse al Biko, che ai tempi era a tre minuti da casa mia. Vidi per la prima volta un Game Boy dal vivo e capii che dovevo provarci anch’io. La stessa sera, vedendo l’entusiasmo, Pablito El Drito mi tirò in mezzo: “In settembre facciamo un concerto in Torchiera, suoni anche tu.” Non avevo niente di pronto, ma passai i tre mesi successivi con il muso sul Game Boy per prepararmi. È iniziato tutto così.
Nonostante a mio avviso la scena sia frammentata e rinasca ciclicamente dalle ceneri, riesci a trovare un filone comune di rimandi o delle citazioni di chi utilizza gli stessi “mezzi” analogici di anni fa?
Guarda, mi sento di contraddirti. La scena non è frammentata, anzi, è una delle scene più affiatate in cui mi sia mai imbattuto. Ci sono alti e bassi, certo, ma c’è una rete affiatatissima che coinvolge tutta l’Europa, l’America, il Giappone e il resto del mondo. È un mondo molto DIY, ma tutti i membri più attivi si conoscono e si danno una mano. Anche zoommando sull’Italia, dove negli ultimi anni sono spuntate nuove e promettenti leve, il clima è lo stesso. E appunto, non penso che la scena muoia e rinasca dalle sue ceneri: ogni tanto sembra che dorma, ma la ricerca e la condivisione del sapere continuano. Non a caso, anche se si usano gli stessi strumenti, i pezzi di oggi suonano infinitamente meglio di quelli di dieci anni fa. A cambiare sono le tecniche e le mode, ma lo spirito è sempre lo stesso: la ricerca della creatività nelle anguste limitazioni degli hardware d’epoca.
Penso però ai primi compositori di musica chiptune che sono per lo più nell’oblio, nonostante ci abbiano tenuti incollati ai videogiochi con delle colonne sonore in loop e riprodotte non poi così fedelmente. Quanto genio e intuizione c’è stato in loro?
Il rapporto tra VGM (video game music) e chiptune è interessante. I lavori di maestri giapponesi come Koji Kondo, Tamayo Kawamoto e Yuzo Koshiro hanno plasmato il senso estetico di tutti i bambini degli anni ‘80, e lo stesso discorso vale per i grandi del C64 e dell’Amiga, come Rob Hubbard (da non confondere con Ron) e Martin Galway. Sono cresciuto con quei suoni e mi sono rimasti tatuati sul lobo frontale del cervello. Non si scappa. Detto questo, pur essendo nipote della VGM, la chiptune ha poi preso la sua strada, andando in direzioni completamente diverse. Ci sono alcuni artisti che amano citare la VGM, ma ce ne sono altri che la VGM non la conoscono quasi. Perché? Perché hanno vent’anni o poco più e i giochi dell’era di Shinobi non li hanno mai visti. Non è un crimine. È segno che ci sono tante nuove leve, e che la chiptune non funziona solo grazie alla nostalgia di qualche trenta/quarantenne.
A parte la spiccata vena DIY e una certa attitudine punk, per certi versi, cosa si prova a cambiare l’identità di un giocattolo, o hardware che sia, facendogli scoprire la sua nuova natura musicale?
È bellissimo. È una lotta contro i limiti di macchine datate, nate per fare tutt’altro, che si trasforma in vittoria quando un intero locale balla e si diverte. C’è chi viene a vedere da vicino, convinto che non possa essere solo un Game Boy. “Ma sotto hai la drum machine?” “Ma usi un sampler?” “Ma hai registrato la base?” In quei casi, la soddisfazione suprema è sollevare il Game Boy e far vedere che entra direttamente nel mixer, senza filtri.
Considerando l’impatto spiazzante e che ricorda per certi versi le figure dei rumoristi dei cartoni animati, qual’è la reazione del pubblico nel vedervi suonare dai Game Boy ai giocattori da cameretta?
Le reazioni del pubblico cambiano tantissimo a seconda del contesto e dell’età media. Nella maggioranza dei casi, il popolo della notte è composto da ragazzi e ragazze intorno ai 20-25 anni, nati dopo il Game Boy (che quest’anno compie VENTOTTO anni) e soprattutto dopo il suo periodo di massima popolarità. Per loro il Game Boy è più un emblema della cultura pop che un caro ricordo, come è lecito aspettarsi, quindi fanno più caso alla musica e al sound spigoloso. E ti dirò: mi piace che sia così, perché sono convinto che la nostalgia sia un carburante destinato a esaurirsi, a differenza della passione per la ricerca sonora.
La gente della mia generazione, invece, ha un tuffo al cuore e un cortocircuito sentimentale: da un lato vedono il Game Boy (o anche un Commodore 64, perché no) e ripensano a tutti i momenti felici con i videogiochi degli anni ‘80, dall’altro sentono un suono che ai tempi sarebbe sembrato impensabile.
Nell’epoca in cui viviamo piena di hardware closed e di sigilli di garanzia come si può evolvere il circuit bending nella toy music o nella “floppy disk wall”? Possiamo riporre speranze musicali nei nuovi microcontrollori o resterà tutto appannaggio dell’hardware dello scorso millennio?
Il circuit bending secondo me troverà ancora per molti anni giocattoli e tastierine da modificare. Certo, la tecnologia va nella direzione delle macchine sigillate o troppo complesse, ma non sottovalutiamo la quantità di plastica che abbiamo prodotto negli ultimi trent’anni. Sono convinto che Arduino e synth autocostruiti continueranno a giocare un ruolo importante nel mondo della musica DIY, ma anche che le scorte di “roba vecchia” siano ancora ben lontane dall’esaurirsi.
È forse la chiptune la linea di demarcazione più spontanea tra musica “analogica” e digitale? Abbiamo visto negli anni recenti un rincorrersi l’uno con l’altro mondo sia nel fronte audio che video come il passaggio (roboante ma effimero?) dalla pellicola al 2K. Ogni novità deve per forza mangiarsi il predecessore o è tempo di considerare limiti e peculiarità dell’uno e dell’altro campo?
Amo la chiptune proprio perché è nella terra di nessuno, sul fronte della guerra tra analogico e digitale. Ha degli aspetti digitali, degli aspetti analogici e altri aspetti digitali che si comportano un po’ come se fossero analogici. E non dimentichiamo che nella chiptune rientrano anche i chip FM, come l’YM2612, che era contenuto in tastiere storiche come la Yamaha DX7, ma anche in console come il Sega Megadrive. Riassumo tutto dicendo che il Commodore 64 ha una generazione del suono digitale che passa in un filtro completamente analogico (ma con parametri controllati digitalmente). La chiptune rappresenta l’evoluzione della musica che non si mangia il predecessore: lo digerisce, lo metabolizza e lo assimila. Senza schierarsi da una parte o dall’altra di una guerra che è più generazionale che altro.
Si ringrazia Kenobit per averci accolti calorosamente ed essersi prestato per questa indagine.
Si ringrazia Fabrizio C. per la mediazione interculturale.
Andrea Piazza
con il valido supporto di Alberto Sartore