Facciamo una piccola premessa. The Epic, primo album (escludendo alcune autoproduzioni giovanili) pubblicato quest’anno come bandleader da Kamasi Washington, è la petra scandali della disputa che si è creata attorno alla cricca del sassofonista losangelino.
Il fatto che il suo album sia uscito per Brainfeeder, la già leggendaria record label fondata da Flying Lotus nel 2008, pare aver turbato molti animi, tra gli addetti ai lavori, vista la poliedricità musicale dei protagonisti di questa eresia o geniale innovazione, che dir si voglia. In fin della fiera, ciò che il collettivo di Kamasi sta facendo al Jazz (o viceversa) viene presentato come una nuova pietra miliare nella storia del genere. The Epic è un magniloquente concept album lungo ben 173 minuti, diviso in tre volumi (The Plan, The Glorious Tale, The Historic Repetition). Pitchfork lo ha definito “una stravagante lettera d’amore a (tra le altre cose): soul jazz, John Coltrane (vari periodi) e i grandi nomi della fusion degli anni ‘70, come Miles Davis e Weather Report.” Probabilmente è proprio questo il problema: visti i collegamenti con una scena musicale a larghissimo consumo (e peraltro non è la prima volta che il jazz presta al resto del mondo qualche figurina, ovviamente), visti gli effetti speciali, viste le collaborazioni illustri, il “mondo” ha avvertito la necessità di individuare in Kamasi la Next Best Thing.
Easy, easy. Il progetto è molto buono, ma limitiamoci a parlare di musica, non di moda. Kamasi ha girato un bel po’ per il globo come turnista (con Snoop Dogg, tanto per fare uno dei nomi) e si può dire altrettanto dei West Coast Get Down, la band con cui cominciò a suonare in giovane età, formazione che si è portato dietro in studio di registrazione per il suo album e per il tour. Inoltre, aver collaborato alla produzione di due degli album più significativi degli ultimi anni (ovvero You’re Dead! dello stesso FlyLo e To Pimp a Butterfly di Kendrick Lamar) legittimano l’hype incredibile che si è creato a livello mondiale attorno all’opera di questo ragazzone. Questo hype è giunto anche in Italia, e pure un bel po’, considerando le tre date al Locomotiv di Bologna, al Monk di Roma e al Tunnel di Milano (in Francia suona solo a Parigi, ridatece la gioconda). Vado al mio appuntamento con un po’ troppo anticipo. Il concerto va sold out alle 19 di sera. Sotto al palco se ne stanno assiepati una decina di fotografi, e altrettante persone vagano nell’ambiente rosso dello storico club bolognese. Il concerto è parte del programma di Bologna Jazz Festival, e un plauso va agli organizzatori di una delle rassegne più valide per il genere a livello nazionale.
Prendo una birra, passo al banco del merch, torno al palco e il locale si riempie. Con la canonica mezzoretta di ritardo, Kamasi sale sul palco portandosi dietro una selezione dei West Coast Get Down, nello specifico Miles Mosley al contrabbasso, Tony Austin e Roland Bruner Jr. alla batteria, Brandon Coleman alle tastiere, e Ryan Porter al trombone. Oltre alla band, abbiamo Patrice Quinn alla voce, e Ricky Washington (padre di Kamasi, il quale tra l’altro è tre volte il genitore) al flauto e sax soprano. Lo vedi subito che c’è qualcosa di poco canonico per un concerto jazz: due batterie, peraltro con cassa da 26, una pedaliera per il contrabbasso con Octaver, Flanger, Delay, Loop Station e chi più ne ha più ne metta, un Moog Keytar attaccato a un Twin Reverb e un Nord Stage 2… e ti rivengono subito in mente le furiose bordate di suono di gente come Stanley Clarke. Mentre affiorano queste associazioni di idee, le luci sul palco vanno in blackout totale, e per qualche secondo i musicisti rimangono completamente al buio, continuando a suonare l’intro di Change of the Guard, prima che qualcuno illumini i loro sorrisi con le torce dei dannati smartphone. Qualcosa di bellissimo. Il primo solo della traccia d’apertura di The Epic tocca naturalmente a Kamasi, e sembra un’immediata celebrazione dell’amore provato da Washington per Trane, pur mancando il corposo tappeto sonoro di coro e archi, rispetto alla versione in studio. Change of the Guard è un ottimo paradigma di quella ispirazione classicistica che anima l’album. Henrietta Our Hero, brano dedicato alla nonna di Kamasi, sposta l’attenzione sul basso ampiamente effettato e sulla voce di Patrice Quinn, il cui chorus si incrocia in poderosi giochi armonici che sembrano ricordare la delicatezza di Flora Purim. Con Re Run invece si passa ad un’atmosfera più vicina a lavori come Speak No Evil, mantenendo un forte legame con i paesaggi africani. Giant Feelings è l’unico brano in scaletta che non proviene da The Epic, ed è una bomba funk, un nuovo lavoro che viene introdotto assieme a Ricky Washington sul palco, la cui tecnica flautistica si mescola ancora una volta con la voce di Patrice Quinn.
Il mood del concerto è caldo e familiare, come tipicamente accade in molti live del genere. Kamasi lascia la scena ai suoi due batteristi introducendoli al pubblico con un paio di aneddoti che i tre si portano dietro fin dalla tenera età. Prima di The Magnificent Seven i due batteristi si scambiano un paio di assoli, tramortendo le prime file a colpi di schegge di legno e piattate. Una sezione ritmica così muscolare conferisce al live la potenza del funk e dell’hip hop, creando un nodding generale in tutto il club anche sulla chiusura di Rhythm Changes. Un live potente, fruibile, non leggendario, forse, ma assolutamente convincente.
Bernardo Mattioni