Intervista di Bernardo Mattioni
Siamo a Firenze, seduti al bar di lettere e filosofia, è il primo giorno di primavera e facciamo quattro chiacchiere con David Matteini e Andrea Cuccaro, rispettivamente chitarra e basso dei Bad Apple Sons, a proposito del loro secondo album, My Dear No Fear.
Parlando di voi, molti hanno individuato derivazioni che riconducono a delle radici culturali con cui sembrate avere un rapporto di continuità. Vi sentite parte di questa continuità o forse il vostro messaggio nasce da una frattura che vi separa da ciò che è stato detto, fatto e suonato finora?
D. Istituiamo un confronto tra questo disco ed il nostro primo lavoro (l’omonimo Bad Apple Sons, 2010). Il disco precedente aveva un taglio post-punk che richiamava le atmosfere dell’onda malata della new wave europea e americana: Birthday Party, il primo Nick Cave, Einstürzende Neubauten, The Cure. Facemmo nostra quella lezione ed il debutto discografico che ne conseguì rispecchiava quel tipo di cultura ma, al tempo stesso, era un prodotto di pancia, nel quale tentammo di mettere su disco quello spirito grezzo che ci sembrava così convincente nei nostri concerti. Ora le cose sono cambiate. I nostri ascolti, pur rimanendo all’ombra di una certa venerazione per quei miti, sono andati verso generi nuovi e contaminati. Eravamo un po’ stanchi dei paragoni, perciò nella composizione di questo album abbiamo cercato di scartare le canzoni più derivative, cercando di dar vita ad una concezione più nostra. Questo album è figlio di un processo creativo molto più razionale.
A. Anche lo spazio che lasciamo alle improvvisazioni nei nostri concerti è più ragionato. Cerchiamo di comunicare la forza dell’improvvisazione in schemi prestabiliti, le parti vanno ad assommarsi seguendo delle linee guida ma tenendo anche conto di una componente emozionale da cui non vogliamo distaccarci.
Spoken word, grido, melodia… al vostro cantante piace mischiare.
D. Clemente (Biancalani) ha un’attenzione maniacale per i testi. Sia per la linea melodica, la prosodia, la metrica, sia per i significati che i suoi testi affrontano. Presta particolare attenzione al fattore onomatopeico; gli piace giocare con il suono delle parole e con il modo in cui possono intrecciarsi con gli altri strumenti. C’è un vero e proprio studio dietro. Ad esempio per il testo di The Holiest, ci sono voluti anni di riscrittura prima di arrivare alla stesura definitiva.
A. Esatto. The Holiest è nata nel periodo in cui abbiamo provato a scrivere in italiano, per poi fare ritorno all’inglese. I significati dei suoi testi hanno a che fare con situazioni estreme, personaggi estremi. Nel primo disco ogni canzone parlava delle perversioni dell’animo umano, i soggetti erano l’erotomane, il sadico… Sono testi belli, anche da leggere. Ed il fatto che distribuiamo i nostri testi ai concerti è un modo per ricordare a tutti la nostra esigenza di far comprendere il nostro messaggio.
Due parole sul primo singolo estratto, Tempest Party?
D. Abbiamo realizzato un video di Tempest Party per il quale dobbiamo ringraziare Andrea Rapallini (regia), Riccardo Gardin (montaggio), e la Monkey Wrench. È stata una bellissima sorpresa, perché Andrea, Riccardo ed i loro colleghi si sono rivelati davvero professionali. La magia del video sta nella regia e nel montaggio e crediamo che sia perfettamente in linea con lo spirito del brano, con la sua potenza e con quell’oscuro senso di inquietudine incarnato dal testo. [Il video è stato anche in prima pagina, tra gli altri, su repubblica.it e rollingstonemagazine.it].
My Dear No Fear. Sembra un titolo rassicurante…
D. Questo è un disco di contrasti. I pezzi del disco arrivano ad un punto di saturazione senza però esplodere mai. C’è un’opposizione paradossale tra oscurità esplosiva e compostezza. Per questo ci sembrava che il titolo My Dear No Fear, un motto un po’ naive, esprimesse questa capacità di sopravvivere anche al peggiore dei conflitti. A me piace vedere questo disco anche in una chiave positiva di redenzione personale, dopo tutte le tensioni che abbiamo sofferto in questi anni. Anche la stessa Stop Shaking Rope è un pezzo claustrofobico, malato, ma che si risolve su un pedale di archi che ne conserva una sospensione quasi positiva. E poi il titolo dell’album spacca, ci piace anche graficamente.
Quanto è stato importante il lavoro di Paolo Mauri per questo disco?
A. Paolo è stato semplicemente fondamentale, in tutte le fasi, nel lavoro di composizione, pre-, post- e produzione. Ci ha aiutato a creare un suono discografico che non avevamo, partendo dal nostro sound live. Ci ha imposto un disciplina, sia umana che sonora. Ci ha detto da subito che andare in studio è un lavoro: artistico ma soprattutto un lavoro. Siamo riusciti a scremare il superfluo, mettendo da parte la democrazia all’interno del gruppo e ragionando nell’ottica di migliorare il pezzo. Questa è una cosa che consigliamo a chi vuole mettersi a produrre un disco sul serio: mettete da parte gli individualismi e pensate a ciò di cui ha veramente bisogno la vostra band.
Siete nel roster di Chic Paguro: una nuova realtà nella musica indipendente italiana?
D. Il nostro album e Driftwood di King of the Opera sono le prime produzioni di Chic Paguro, un collettivo di autopromozione composto da musicisti che hanno un legame di amicizia e di stima reciproca. Il nome nasce proprio dall’immagine di un paguro che esce dalla conchiglia, che potrebbe essere una metafora della scena locale. E poi è chic, il ché non guasta mai [ride]. Oltre ai sopracitati ci sono Unepassante, Tribuna Ludu e Kill the Nice Guy. È una rete di interscambio di competenze per promuovere la nostra musica anche al di fuori della scena toscana, un progetto dove uniamo le nostre forze per creare tutto ciò che può servire ad un gruppo: un sito, la promozione, la grafica etc. Infatti ai concerti dei nostri gruppi c’è sempre un banchetto Chic Paguro, dove facciamo promozione della musica del nostro catalogo. Info sul sito chicpaguro.net.
Sul sito www.badapplesons.com è possibile scaricare gratuitamente un brano del loro album.