Velvet Underground e Lou Reed cambiarono la storia del rock

I fiori del male sono in piena fioritura. Questo il commento del Chicago Daily News quando, attorno al 1967, quattro nerovestiti figuri inquietanti accompagnavano le live performance della malfamata Factory di Warhol (“The Exploding Plastic Inevitable”) con spettacoli live fatti di caos, volumi insopportabili, sudore, stridore e storie di squallore, sadismo e angoscia direttamente dalle strade di NY. La maledizione dei Velvet Underground fu proprio quella di volgere lo sguardo al lato imbarazzante dei folli anni sessanta, che il milieu contemporaneo e successivo tentava disperatamente di nascondere, propagandando l’idea ancora viva di un decennio soffuso di solare, candida ribellione e rivoluzione goliardica contro il grigiore del sistema. Rolling Stone si rifiutò di recensire il loro debutto (The Velvet Underground & Nico,1967), scelta idiota ma comprensibile visti i toni crepuscolari, la cacofonia ricercata, e pezzi che raccontavano di bondage, deviazioni sessuali, botte d’eroina e paranoia ossessiva.
Ora che siamo cresciuti, lasciandoci alle spalle la retorica paracula degli anni settanta e i miti bohéme dell’abuso di droghe pesanti e di una promiscuità esibita ed esaltata che suonano ormai più patetici che attraenti, è il caso di raccontare perché i Velvet Underground e il lavoro lirico di Lou Reed hanno cambiato per sempre il rock moderno.

 

Lo dico subito: credo che questa sia stata la band più influente della storia. Leggete bene, ho detto: influente; non il più grande gruppo, né il gruppo più “bravo” (qualunque cosa voglia dire), il più influente. Tempo fa, qualcuno disse che dopo aver ascoltato i VU, tutti vollero formare il proprio gruppo, e non mi sentirei di contraddire quest’affermazione.
Capitano, nella storia della musica, quelle band che trasudano possibilità e infettano con la voglia di creare, e non necessariamente le cose vanno di pari passo con eccelse abilità tecniche, riconoscimento di pubblico o di critica. Reed e i Velvet Underground per primi hanno completamente scardinato l’impianto del rock, asciugandolo ma sporcandolo allo stesso tempo, impostando una ricerca sonora e testuale che fosse coscientemente e sfacciatamente fuori dagli schemi tradizionali, e anche di quelli considerati all’epoca rivoluzionari. Hanno portato l’errore e l’imprecisione a livello di estetica, rendendo l’improvvisazione un fenomeno tangente la trance, assolutamente ellittica e sganciata da prescrizioni melodiche e armoniche che sembravano delimitare in modo assoluto e tirannico ciò che era “bello” e accettabile da ciò che era “brutto”, non-musica, rumore. Hanno sfondato i confini del rock in senso orizzontale, assorbendo tutto ciò che gli era intorno, laddove predecessori e contemporanei si muovevano in senso verticale, impilando materiale su materiale per creare una struttura sontuosa e conchiusa in sé. Se gente come i Beatles (in primis et praecipue) ci hanno insegnato quanto babelicamente in alto può arrivare l’edificio della rock song senza collassare su se stesso, Cale, Reed e soci pasticciarono su un cumulo di macerie sparse creando mostri frankensteiniani di incredibile ampiezza, dedali precari d’alchimie estemporanee irripetibili proprio perché progettati scientificamente per accogliere l’imprevisto, l’incomprensibile, l’impreciso.
Le radici di questa band sono tanto nel blues arcaico quanto nel free jazz e nell’avantgarde della classica contemporanea, e le sue fronde arrivano praticamente in tutto ciò che dopo di loro è germogliato. I VU hanno inventato l’etica noise e quella punk eviscerandola da Cage e Stockhausen senza imbrattarla di dilettantismo e nichilismo, con un rigore e una scientificità completamente estranee alle sciatte incarnazioni che questo termine avrebbe avuto nel vicino futuro. Hanno ripensato il rock sin nei suoi componenti elementari, usando chitarre con le sei corde tenute su una stessa nota (“ostrich guitar”), inserendo droni di viola e raschi d’archetto, mutilando la composizione tradizionale della batteria, saturando i canali fino a far esplodere le valvole. Più importante di tutti, ci hanno insegnato che l’etica del DIY (prima che diventasse un termine da hipster balordi), se applicata a genio, urgenza espressiva e curiosità, può dare frutti tanto notevoli quanto quelli di un’impeccabile preparazione musicale. Hanno sfondato la porta della musica invitando chiunque volesse partecipare a fare per lo meno un tentativo, e tutto questo è impareggiabile. Per rubare, modificandola, l’affermazione di un notissimo cantate-ex-batterista-di-band-miliare: “Senza i Velvet Underground l’alternative rock non sarebbe esistito. E se fosse esistito avrebbe fatto schifo”.

 

Ieri, come da profezia (Sunday Morning, ndr), Lou Reed ha abbandonato questa valle di ceneri, lasciando come biglietto d’addio la foto di una porta bianca sulla quale spicca un manifesto che lo mostra più giovane e più cazzuto di come amasse presentarsi in pubblico negli ultimi tempi. Lo vidi dal vivo un paio d’anni fa. Terrorizzato dalle sue altalenanti performance live, non sapevo cosa aspettarmi. Fu un concerto strepitoso, perfetto in ogni sua parte, e di questo sono grato a lui e alla mia (altrettanto altalenante) fortuna. Finora ho tentato di raccontare perché credo che i Velvet Underground debbano occupare il gradino più alto dell’empireo del rock moderno, ora tocca al perché il vecchio Reed, in particolare, meriti un seggio alla destra del Padre nonostante le prevedibili rimostranze del Figlio.
Tanto per cominciare, Lou Reed era un genio. Senza possedere le dita di John McLaughlin, ha reinventato completamente l’utilizzo ritmico e solistico della chitarra, utilizzando le risonanze di vecchie e ingombranti semi-hollow per generare un caos sonico senza precedenti. Poi, e forse, soprattutto, Lou Reed è stato uno scrittore prestato alla musica, e uno dei (pochi, pochissimi) grandi poeti del rock. L’ho scritto più di una volta, in questo genere il valore lo fa la musica quanto le parole, così era in principio coi vecchi blues, così è ora e così sarà per sempre; non accettare questo assunto vuol dire guardare ai fatti con un occhio guercio. Reed, che dei bluesmen del delta si è sempre professato fan, è stato uno dei pochi a raccoglierne l’eredità in maniera coscienziosa. La musica doveva servire a raccontare, descrivere, dare voce a ciò che era ufficialmente tagliato fuori (le alluvioni, la crisi, l’alcolismo, l’omicidio e via così). Purtroppo spesso quest’eredità fondamentale di musicista come testimone del suo tempo è stata dissipata in un fiume di liriche banalità (Led Zeppelin? Ovvio, ma non furono purtroppo i soli), relegando la parola a mero puntello ritmico fino a più recenti aberrazioni parolistiche da far strappare i capelli.
Lou Reed conosceva profondamente l’universo letterario contemporaneo, e trasse vivissima ispirazione sia dalla (quasi) coeva beat generation (William Burroughs su tutti) che dal tardo modernismo di stampo realista di Hubert Selby Jr o Nelson Algren (dal quale mediò il celeberrimo titolo “Walk on the Wild Side”), senza tralasciare una corposa vena noir presente in gran parte della sua produzione di testi, derivata dall’Hard Boiled e da Raymond Chandler in particolare, di cui Reed fu grande ammiratore. Grazie a queste basi, poté trasfondere in musica il mondo degradato e notturno della metropoli statunitense, trasformandosi nel testimone del lato oscuro di un’epoca, come furono Skip James, Leadbelly o Charley Patton prima di lui.
Lou Reed ha dato dignità a tutto ciò che era guardato con disgusto e disprezzo, schizzando un mondo, che Hubert Selby Jr definì “senz’amore”, con estro poetico e uno sguardo che per quanto apparentemente cinico e sprezzante, è assolutamente umano e pietoso. La grandezza di quest’uomo sta nell’aver riportato la musica al suo compito di testimone con lo stomaco di ferro e senza peli sulla lingua, brutalmente onesto nel descrivere semplicemente ciò che vede attorno a sé senza celare o indolcire. Non è quello di Reed, ovviamente, l’unico approccio possibile alla composizione di testi, ma piuttosto una modalità arcaica riesumata e aggiornata nelle forme e nel linguaggio. Ezra Pound, in The ABC of Reading, si augurava che poesia e musica riprendessero a coesistere, ricreando una comunanza originaria poi scissa nel tempo; Lou Reed, insieme ad altri pochi illuminati (Dylan, Tom Waits, Cohen, Nick Cave…), rende possibile tutto questo, abbracciando al contempo una poetica del vero che il rock sembrava aver dimenticato. Poetica capace di passare dalle sferzate crudissime di un capolavoro di sperimentalismo come Sister Ray, dove si racconta dell’omicidio di un marinaio da parte di un gruppo di travestiti eroinomani (Oh, non dovresti farlo/Non sai che macchierai il tappeto?/Comunque, hai un dollaro?/Nah, non ho proprio tempo/Troppo occupato a succhiare un arnese), alle note più eteree e decadenti di Venus in Furs, dove un rapporto BDSM si trasforma in un angoscioso quanto sognante deliquio (Sono stanco/Sono sfinito/Potrei dormire per mille anni/Mille sogni che mi sveglierebbero/Colori diversi fatti di lacrime). La candida sfacciataggine rimbaudiana dell’inno travisato Heroin (Quando schizza su per la siringa/Quando mi stringo attorno alla morte/E non potete aiutarmi, non voi ragazzi/E tutte voi ragazze con le vostre dolci chiacchiere stupide/Potete tutti andare a farvi un giro/E credo che proprio non so/E credo che proprio non so), l’ambigua bellezza paranoica di Sunday Morning (Domenica mattina/E sto cadendo/Ho una sensazione che non voglio provare/Prime luci dell’alba/Domenica mattina/Sono solo gli anni sprecati/proprio dietro di te), la dolcezza inaspettata di I’ll Be Your Mirror (Quando pensi che la notte ti abbia sbirciato i pensieri/Che dentro tu sia contorta e cattiva/Lascia che ti mostri come sei accecata/Per favore, abbassa la mano/Perché riesco a vederti). Addirittura un “film per le orecchie” (come lo definì lo stesso Reed), ovvero Berlin, uno dei capolavori del rock, totalmente snobbato all’uscita. Potrei proseguire per altre dodicimila battute.
Lou Reed è stato tra i più grandi autori di sempre, e così resterà, per sempre, adesso. L’enorme spessore della musica che ha lasciato ai suoi contemporanei e discepoli, è un monumento colossale nell’architettura del rock, eguagliato da pochi, forse insuperato. Gli sarò sempre grato per essere stato capace di creare (nelle parole di Georgette, travestito romantico di Last Exit to Brooklyn) “così tanta bellezza dall’oscurità tormentata delle nostre anime”. Goodnight, Lady/it’s time to say goodbye.

MARCO PETRELLI