Roma, 26 settembre. La tappa romana della presentazione del nuovo album di Saluti da Saturno, Dancing Polonia, è Giufà, nota libreria caffè nel quartiere San Lorenzo. Scaffali pieni di libri, pavimento a scacchi, qualche tavolino, il piccolo bancone in fondo. L’ambiente è accogliete e informale, adatto all’impostazione data alla presentazione: un concerto/chiacchierata, ci dicono.
Mirco Mariani, la mente, l’anima e il corpo dietro al progetto Saluti da Saturno, si accomoda fra i suoi strumenti. Barba folta e camicia celeste nei pantaloni beige, occhiali tondi e berretto con visiera. Di fianco a lui Valerio Corzani, conduttore radiofonico di Radio Tre e critico musicale. Nella sala gli spettatori riempiono i pochi posti a sedere.
Corzani e Mariani si conoscono da lunga data, entrambi romagnoli e coinvolti in passato in comuni progetti musicali (Mezapegul). Nella conduzione della presentazione non c’è il rapporto intervistatore/intervistato, conferenziere/moderatore. È una chiacchierata, come promesso.
L’ALBUM. Si parte da Dancing Polonia. Corzani espone le caratteristiche musicali dell’album, i generi entro cui si muove. Una “commistione di parti languide e ruggiti”, ciò che serve a un buon disco e che contraddistingue il piglio di molti musicisti, come ad esempio Tom Waits – suggerisce il critico.
Free-jazz è la parola chiave spesso utilizzata, e dunque Ornette Coleman, uno dei due musicisti a cui è andata la dedica di Mariani nell’interno copertina di Dancing Polonia. Coleman, certo, ma anche Marc Ribot, spesso citato nel corso della presentazione. Lui che con il musicista romagnolo ha più volte suonato è sicuramente un punto di riferimento musicale nella galassia di Saluti da Saturno, con i suoi passaggi repentini da dissonanze e rumori disarticolati ad armonie più canoniche, tutto marcato da una grande libertà formale. E a quanto pare anche in Dancing Polonia emerge questa esigenza di perseguire una certa libertà nella composizione musicale, e di improvvisare: anche la scaletta non dovrebbe essere pianificata, ma “avvenire” in maniera estemporanea.
L’ESIBIZIONE. Mirco Mariani, lo si potrebbe stare ad ascoltare per ore. Tira fuori aneddoti su aneddoti sulla scena romagnola e la sua crescita musicale, poi la storia del curioso pacco contenente una raccolta del meglio del liscio, recapitatogli direttamente da Riccarda Casadei, come segno di apprezzamento… Si giunge così anche all’altro musicista a cui è dedicato questo album: Secondo Casadei, il re del liscio romagnolo, qui eletto a “maestro del free jazz cantautoriale”. Mirco Mariani ha anche il liscio nel suo background: lo suonava da giovane per 60 mila lire, ma senza troppo entusiasmo; poi crescendo ne ha rivalutato l’importanza.
La presentazione prosegue citando le collaborazioni del Mariani batterista (Capossela, Rava, …), poi finalmente imbraccia la chitarra e si accinge a suonare, ma senza svestire i panni dell’affabulatore. Il primo brano che esegue è una Romagna Mia, con un accompagnamento chitarristico armonicamente stravolto, stilisticamente cacofonico, solidalmente al background musicale più volte citato nel corso della chiacchierata sin qui avuta. Per l’esecuzione Mirco Mariani chiede a uno spettatore di potersi sedere al suo posto, fra il pubblico e i tavolini. Manifesta un certo disagio per la configurazione consuetudinaria del concerto, con la netta separazione fra musicista e pubblico: “solo se sei Charlie Haden – mi pare sia questo il nome che ha citato – puoi permetterti di tenere gli spettatori incollati a guardarti”. La musica è popolare, parte della vita quotidiana. Il virtuosismo può essere contemplato, ma la musica va vissuta, è interattività, divertimento. Spiega inoltre che la scelta di presentare l’album in piccoli locali deriva proprio dalla volontà di evitare gli asettici megastore di dischi, ipermercati musicali che tanto male fanno ai musicisti e dove nulla può accadere.
Romagna Mia è eseguita con trasporto. La chitarra è scordata: “È stato Arto Lindsay a scordarla” – ci informa – “e da allora non l’ho più accordata”. La seconda parte della presentazione è incentrata sull’incontro fra Mirco Mariani e il musicista newyorchese, che ha sorprendentemente collaborato in tre brani di Dancing Polonia, di cui solo due pubblicati: “Non ho ancora avuto il coraggio di dirgli che un pezzo non è stato inserito nel disco…”.
Arto Lindsay è stato a Bologna a giugno, ospite di AngelicA, Festival internazionale di Musica con un programma di pregiata fattura. In questa occasione è avvenuto l’incontro: “Siamo andati in giro a comprare scarpe, ero con lui nell’unico momento che aveva per poter svolgere queste attività quotidiane”. Mariani ha continuato a parlare dell’esperienza, visibilmente ne è ancora entusiasta; poi si è spostato dietro alla tastiera e ha suonato il secondo e ultimo pezzo.
L’INTERVISTA. Dopo la presentazione abbiamo modo di parlare face-to-face con Mirco, seduti a uno dei tavolini di Giufà. Abbiamo sposato la sua filosofia, così l’intervista è diventata una intervista/chiacchierata (e i 10 minuti che avevano chiesto sono divenuti 50…). Si è parlato di musica, di cinema, di viaggi, di futuro: “per questo tour sento delle vibrazioni positive; poi mi trasferisco a New York e sto un po’ con Arto Lindsay”.
Dopo quaranta minuti di confronto, il tempo a disposizione si stava esaurendo, così ho pensato fosse il caso di porre l’unica domanda che mi ero appuntato sul taccuino durante la presentazione. Nel sentir parlare di musica con tanto trasporto e passione, di improvvisazione, di rifiuto di schemi, di libertà, ho provato una forma di repulsione per la consuetudinaria tassonomia spicciola, lo schematismo senza estro della retorica del giornalismo musicale, che viene fuori implacabile nel momento della recensione, ma ancor più nelle interviste… Non volendo fare del gossip musicale né affibbiare etichette di improbabile efficacia, ho riflettuto su cosa potessi chiedere (ed ottenere) di effettivamente utile per me e per un qualsiasi lettore da un’intervista o dal giornalismo musicale in genere. Non trovando in me risposta (stanchezza, caldo, le troppe chiacchiere, la crisi socio-culturale generalizzata a molti campi del sapere e/o attività umane, il pavimento ipnotico della sala?), ho deciso di rigirarla. Ho pensato di chiedere a un musicista tanto spontaneo, intuitivo e viscerale il suo parere sul giornalismo musicale:
– «La critica musicale oggi che apporto dà alla musica»?
– «Questa domanda avresti dovuto farmela qualche tempo fa. Adesso posso solo dire che io preferisco che un macellaio mi dica “ma lo sai che non sei un patacca!” piuttosto che sentirmi dire da un giornalista “sta cosa mi ricordava qualcos’altro”. Si riceve più in uno scambio di questo tipo. Le recensioni… le recensioni realmente che cosa ti portano? Devi avere la fortuna che le parole che usano per descrivere il tuo album ti aprano un’altra strada. Qualche volta mi è successo… adesso non ricordo i nomi degli autori di quelle parole, ma è successo… Kaurismaki! Lui l’ho scoperto grazie a un giornalista. In questo caso il giornalismo mi è stato molto utile».
Tornando a casa, con Dancing Polonia fra le mani, penso che non avrei fatto una recensione, anche se si tratta di un buon album. Le parole del musicista sulla critica musicale vanno premiate. Le sue considerazioni s’inseriscono in un sentire comune più generale molto diffuso oggi: è la crisi della mediazione, chi si mette fra l’oggetto e il fruitore interponendo giudizi è percepito come elemento di disturbo. Difatti, si nota spesso l’esigenza di svalutare l’operato degli “esperti” mediatori culturali (siano essi critici, politici, giornalisti, ideologi, filosofi, sindacalisti, giudici, commercianti…), perché ognuno desidera sentirsi libero di orientare i propri comportamenti di consumo. Mi viene in mente una scena di You, the Living, di Roy Andersson: un anziano psichiatra arriva trafelato nel suo studio, indossa il camice e si sfoga, in piedi, guardando dritto verso la macchina da presa; dice di essere stanco di sforzarsi per far sentire bene i suoi pazienti che chiedono di essere felici, sono persone che si sentono bene soltanto buttando a terra gli altri, e di avere iniziato a basare le cura sulla semplice prescrizione di pillole.
Sarebbe comodo andare in contro alla domanda offrendo esattamente ciò che può appagare la richiesta nel modo più veloce possibile e confrontarsi soltanto con i benefici momentanei ottenuti; ma in campo culturale, come in quello medico, è pericoloso abbassare la qualità degli interventi. Certo non si tratta di pazienti, ma ad ogni modo non bisogna dare al pubblico tutto ciò che vuole: la musica può essere popolare, il lavoro dello specialista e della critica non deve esserlo mai.
ALBERTO SARTORE