Cliccare sul seguente link prima di proseguire con la lettura. Non è un brano particolarmente ricercato, ma aiuta a calarsi nell’atmosfera.
Alla partenza per Barcellona, avviene questo rapido scambio tra il sottoscritto e il caporedattore di Beautiful Freaks. Il 22 maggio, ad un’ora indefinita del pomeriggio:
– Ah, Ago, io vado a Barcellona, al Primavera. Scrivo un paio di cose, ok?
– Vai, scrivi, mettiamo tutto online.
Ripenso a queste parole sul bus che mi porterà in via degli Ausoni, presso la casa del giovane Pieretz, mio usuale riparo romano. E ripenso anche al fatto che da quando il Primavera rientra nei miei interessi, ho avuto il conseguente piacere di scoprire un sottobosco di dicotomie squisitamente italiane, che prevedono il ricoprire tale manifestazione di allori o di sterco. Vuoi per l’inscindibile doppio filo che lega Spagna e Italia (erasmus, prosciutto, calcio, occupy vari, esami a scelta, moti rivoluzionari etcetc.), vuoi per la risonanza mediatica dell’evento (esiste anche la pagina anti-Primavera Sound), se segui assiduamente almeno uno degli headliner e strimpelli una chitarra, finisci puntualmente invischiato nella sequela di commenti pro/contro. Ripensato tutto ciò, sono già arrivato a El Prat.
Questo non è un live report, è scritto nel titolo. È un bollettino di guerra. Dopo che tutte le cartucce sono state sparate, si fa la conta dei corpi, si raccattano i cocci e si sbaracca. Cominciamo proprio parlando di corpi: pare che siano 170.000 quelli passati sotto le lettere mobili all’ingresso del Parc del Fòrum, un’immensa area funzionale a ridosso della Barceloneta, dal 22 al 26 maggio. La venue divide i pareri della gente che incontro durante il festival, c’è chi dice che quella specie di parabolica che finge di tuffarsi nel mare sembri un enorme tentativo di stupro ai danni delle maree (parafrasando) e chi invece si diverte ad individuare nella sua estremità il punto dove sorgerà il sole, mentre muoiono gli ultimi concerti della giornata. Questi ultimi, per inciso, ammontavano a più di 200 nella settimana della kermesse musicale “migliore al mondo” (cit. Primaverasound Management) organizzata su 95.000 metri quadrati tra palchi, clubs, furgoni, auditorium (sì, è plurale)… tutto sold-out, of course.
Seguendo un principio fondamentale del giornalismo, detto “Approccio Cucciolone”, vi parlo subito delle cose negative, in modo da lasciare il cioccolato per ultimo. Premetto il mio racconto, sottolineando che la mia opinione è personalissima e smentibilissima.
Se non fosse bastato l’atterraggio turbolento a farmelo presagire, il festival ci ha tenuto a confermare che nemmeno le spiagge della Costa Brava sono state risparmiate dalle gelide volute eoliche di Ginevra, le quali sono andate ad infierire su due fattori fondamentali nell’economia del festival, la resa fonica lontano dai palchi ed i nostri culi. Detto questo, rispetto alla precedente edizione il palco dei main-event, il Nota-birra-di-Amsterdam-presso-la-cui-fabbrica-tutti-ci-siamo-fatti-un-giro Stage, è stato posizionato nell’area più lontana, a circa due giorni di cammino/cinque ore a cavallo dall’ingresso, nella parte più a sud della venue. Più che la distanza, il problema è consistito nel fatto che accanto al suddetto Palcone, questi m’hanno piazzato il Festival-nonché-label-MadeInUK-omonimi-della-associazione-tennisti-professionisti Stage. Risultato: nelle pause del concerto dei Phoenix arrivavano delle leggerissime bottarelle di Death Grips da destra. Inezie, rispetto alla portata mastodontica di un evento del genere. E poi hanno fatto questo investimento fondamentale della ruota panoramica, che beh effettivamente…
Ma vediamo cosa è successo.
Escludendo mercoledì 22, si parte con il primo giorno di programmazione intensiva, vale a dire il 23 maggio. Cominciare con i Tame Impala rende tutto più semplice. Si avverte la chiara sensazione di essere nell’hic et nunc, insieme ad un gruppo che sembra aver raggiunto una nuova vetta. Il sole che tramonta alle spalle delpalco, e i gabbiani che si lasciano sostenere dal vento fanno da cornice alla band australiana più in voga del momento, con il mare che sembra riflettersi nella Rickenbacker di Kevin Parker, con i delay al posto delle onde. Si portano dentro gli anni ’70 i ragazzi di Perth, anche se le grafiche sullo sfondo sembrano riprese da Windows Media Player. Molta improvvisazione e psichedelia nel loro set, uno dei migliori act dell’intero festival. Il tempo di dare un’occhiata ai Dinosaur Jr. (Sludgefeast) che ci troviamo subito al Bivio, archetipo fondante del Primavera: la sovrapposizione. Il dialogo tipico dell’ansia da sovrapposizione si conclude con un “ok, voi di là, io di qua, ci rivediamo a mezzanotte ESATTAMENTE al terzo palo da destra, tra il paninaro e quel tipo svenuto da tre ore. A dopo.” Me ne vado a vedere i Deerhunter. Confesso di non aver sentito ancora Monomania, ma devo dire che, non essendomi informato prima, non mi aspettavo cotanta viulenza da quelli di Atlanta, GA, essendo un grosso fan di Halcyon Digest. Non rimango deluso tuttavia, visto che i Nostri avranno modo di suonare, risuonare e ririsuonare ancora, come sostituti dei Band of Horses, persi tra i tornado dell’Oklahoma. Salto a pie’ pari Grizzly Bear e The Postal Service, e mi convinco di aver fatto bene, visto che mi sono giunte voci, per quanto possano valere, di concerti relativamente soporiferi (gli uni) e privi di senso (gli altri). Mi appoggio un momento alle transenne con Menomena, brillanti, apparentemente essenziali ma estremamente sofisticati e profondi nelle scelte e nei suoni, riproposti dal vivo come su disco. È tempo di andare a farsi prendere a schiaffi da Death Grips. Forse tra le cose più d’impatto qui al Primavera. Arrivi da lontano e ti vedi MC Ride a petto nudo che scapoccia sulle basi di Morin, sputando rime (non sempre riconoscibili, eh) come un cane rabbioso. Peccato per l’assenza dell’altro produttore/batterista, Zach Hill. A pochi passi c’è la zona main stage, quello della birra (cit. Fantozzi), dove hanno appena iniziato i Phoenix. Dopo l’ultimo disco avevano qualcosa da farsi perdonare. Aprono e chiudono con Entertainment, ma nel finale ci infilano la comparsata che non t’aspetti: J Mascis! Primi tre pezzi nazionalpopolari (Lasso e Lisztomania) e poi una serie di medley ed “esperimenti” pop, se così vogliamo chiamarli, prima del commosso bagno di folla tra le prime file. Voto positivo, non sempre bisogna diffidare dei grupponi. Alla fine del piatto principale, rimane il dessert. Four Tet fa la parte del sorbetto al limone, dj set non a livelli eccelsi, un po’ ballereccio e sporcato dal vento… ALT FERMA TUTTO mi sono ricordato di un pensiero fondamentale. Sono pronto a scommettere che nel giro di tre anni al massimo la musica House tornerà a dominare il mondo…
Torniamo a noi e agli ottimi Animal Collective. Ormai sfiancati dalla giornata, ci assiepiamo sul prato in salita antistante. Appena arrivati all’altezza giusta, ci si gira e bam, ci troviamo davanti il Primavera Stage, con il Collettivo e la loro caleidoscopica scenografia. Ottimi, ottimi, ottimi.
24 maggio. L’unico difetto di seguire tout-court gli eventi serali del festival è che ci si perde il giorno, a meno di non stimolare chimicamente la propria produttività. Ergo, ci si alza poco prima di pranzo – non tanto perché si è tirato fino a tardi, ma perché le giunture non sono più quelle di una volta – e si trangugia qualcosa da mangiare. Nel nostro caso, un bocadillo con caprino, mango e prosciutto. Fine degli avvenimenti significativi extra musicali.
La giornata comincia con Kurt Vile alle 18:10. Praticamente all’alba. L’interesse è vivo, vivissimo, e viene ripagato per metà. L’intensità del set e la risposta del pubblico calano di pari passo quando i Violators non accompagnano il Vile, nelle fasi acustiche. Forse aspettative troppe aspettative, ma il capelluto Philadelphino di bianco vestito porta comunque a casa la pagnotta. E via di corsa dentro all’Auditori, RockDelux Stage. Si esibisce Daniel Johnston, storia vivente, leggenda dell’ansia, guru indiscusso degli hipster dal cuore tenero. Personalmente, ritengo che commentare questo artista sia irrispettoso. Credo che per apprezzarlo non servano le parole scritte su qualche rivista. Al massimo posso consigliare il film “The Devil and Daniel Johnston”. Ah, per quanto riguarda il live dico solo che l’auditorium si riempieva sempre, ma mai come stavolta. Non si trovava posto nemmeno in piedi. Quando la leggenda supera la realtà.
Menzione d’onore per i nostrani, Honeybird & The Birdies; siamo felici di vederli qui al Primavera. Anche qui hanno portato tutti i colori che avevano a disposizione, e anche più del solito. Ma bisogna fuggire in fretta e furia. Live della rivelazione Django Django. Scusate il tecnicismo, ma Default dal vivo spacca. A parte questo dettaglio emozionale, il live dei nostri è davvero intelligente. Posso essere d’accordo sul riciclato, ma i quattro di Edimburgo si dimenano nei pressi di Canterbury.
Rinuncio a malincuore ai portoghesi Paus ed agli Shellac, per andare a sentirmi qualche pezzo dei/lle Breeders, i/le quali optano per un esordio duro con la hit che ha consacrato la band come secondo pezzo (Cannonball) ma la festa finisce più o meno lì. Forse saltare dall’urgenza di rimescolare, proporre, colpire, ad un tuffo nei 90s li penalizza un po’. Certo sul palco c’è un pezzo di storia, (il bassista dei Pixies) e il concerto è un vero e proprio tributo al passato (…performing Last Splash) ma non sempre rinvangare il tempo perduto è garanzia di successo.
Dal Primavera Stage si passa al sottostante Prima-marca-di-occhiali-da-sole-che-ti-viene-in-mente Stage dove ci sono i Tinariwen, uno dei gruppi che aspettavo. Per chi non lo sapesse, il collettivo Maliano è composto da un gruppo di Tuareg, la cui storia merita ulteriore indagine. Il suono è ipnotico, etereo, rilassante e inquietante al tempo stesso. Assistere ad un loro concerto, se si riesce a calarsi nello stesso, è quasi zen. Per dare una definizione tagliata con l’accetta, propongono musica della loro tradizione popolare filtrata da transistor, valvole e pickup. Da vedere assolutamente, soprattutto all’aperto. L’aria del deserto si fa talmente viva nell’anfiteatro, che mi viene sete. E poi è già cominciato il concerto di The Jesus and Mary Chain, altri veterani dello shoegaze. Mi sono perso l’inizio, ma anche in questo caso i fratelli Reid lasciano ai posteri una performance gradevole, estesa, ma nulla più. Memorabile Just Like Honey con Bilinda Butcher dei My Bloody Valentine, che apre ad un finale in crescendo, riscattando parzialmente il resto del live. Aspettiamo fiduciosi il probabile nuovo disco. Un po’ delusi, ci spostiamo verso il Primavera Stage dove James Blake dovrebbe cominciare a momenti, ma come non indugiare sulle “melliflue” tonalità dei Neurosis per qualche istante? Sono talmente cazzuti che verrebbe da rimanere… ma no, largo ai giovani. Non c’è tempo per pentirsi, c’è sempre tempo per redimersi. E passare dall’ottimo al sublime non è mai una delusione. Perché sublime è il concerto del golden boy. I never learnt to share è commovente, Digital Lion geniale, Limit to your love fa venire la pelle d’oca a tutto il mondo e così per il resto del set. 10, punto. Tirando su la lacrima, mi dirigo con tutto il gregge umano al rendez-vous con la mia adolescenza. Sì, lo so di aver detto “tanto i Swans me li vedo a Barcellona”, ma ahimé al cor non si comanda. Arriviamo fortunosamente oltre le transenne che delimitano l’area calda dal resto del mondo, i Wedding Present finiscono la loro improvvisata dal palco laterale sopraelevato… e “streets like a jun-goooool” si comincia subito a bailar. Come resistere ai dittonghi di quel figonaccio di Damon Albarn? C’è poco da dire sul concerto sing-along Primavera-estate 2013, se non che i Blur ci riservano un trattamento di tutto rispetto, con gli ottoni quando c’è da fare Universal e i chitarroni su Beetlebum, sopra le righe. Titoli di coda con song2 e si ripensa che da quando si giocava in cameretta con Fifa ’98 alla Playstation (1) ne è passata d’acqua sotto i ponti. Fine serata con Titus Andronicus e Disclosure. Molto buoni i primi, che la barba ce l’avevano già in tempi non sospetti e un po’ noiosetti i secondi, tra suoni spaziali che non si capisce bene né da dove vengano né dove andranno a finire. Sarà che siamo stanchi ma intanto si sono fatte le sei. Allett’.
25 maggio. L’ultimo giorno vero. Bravissimi Apparat, che all’interno dell’Auditori Rockdelux trascinano la platea in un universo di loro proprietà, Guerra e Pace, da cui non si riesce ad uscire fino all’ultima nota. Il minimale si sovrappone al sofistico, ma tutto è molto facile da seguire, godibile ma intelligente. Deliziosi. Essendo l’ultimo giorno mi ritrovo a dover saltare qualcosa in nome della socializzazione. Ed è proprio in nome della strafottutissima socializzazione che mi ritrovo insieme ad un branco di figli di p*****a ad agitare il pezzo per aria come se non me ne f******e un c***o. Ebbene sì. Primavera Stage. Ore 22:20. Siore e siori, i maestri mondiali di quella istituzione chiamata Old School. Direttamente dalle 36 camere: il Wu-tang Clan. Superbi. Nella performance veramente troppo nera ci infilano pure lo showcase di Djing, skratchate a più non posso alla Grandmaster Flash e, come se non bastasse, una cover di Come Together (sì, quella dei Beatles!!!). Sentirsi chiamare Motherfucker almeno 200 volte da un palco non ha veramente prezzo. Solito spazio di tributo a O.D.B., tutti con le mani in aria, doppiavvù su e giù e “wu-tang! wu-tang!” a squarciagola. Il festival si avvia a chiusura. Bisogna rendere omaggio al Diavolo, rappresentato stasera dai suoi fedeli emissari Nick Cave & The Bad Seeds. La calca diventa un corpo unico, man mano che Nick the Stripper passa dal nuovo repertorio (Jubilee Street) all’inferno di allora (The Weeping Song, Jack The Ripper). Colpo d’occhio indimenticabile, con Cave che scende in mezzo alla folla e Warren Ellis che massacra l’archetto del suo violino. Come Mefistofele fu condannato alla conoscenza eterna, anche Nick e i Suoi si cingono in oscura comunione, un turbinio nero e folle di godimento metafisico, che non ci abbandona al risveglio da questo piacevole incubo. Dura tutto troppo poco.
Vado a capo perché ci sta. Ultimi atti della giornata. Crystal Castles festaioli ma mgmgm nun partono mai. Presabbene comunque, prima di un altro eterno languire, My Bloody Valentine. Un dannato camion che ci prende sotto e ci oblitera a colpi di decibel. Infiniti minuti di rumore puro e semplice, rumore da godere, da abbracciare, da capire. L’estate che non arriva, il vento, i gabbiani, le birre, la festa: tutto sembra fermarsi congelato nella combustione provocata da tutto quel rumore. Mi fanno ancora male le orecchie, mortacci loro. Il groove degli Hot Chip ce lo godiamo dal prato, dove tutti ancheggiano da seduti. Tutto molto cool. Il festival è finito, l’anno prossimo ci saranno i Neutral Milk Hotel, oltre a noi. Noi chi siamo? Ancora non siamo niente, ma ormai sono le sette di mattina, e questo racconto finisce qui.
Bernardo Mattioni
si ringrazia per le foto Marco De Angelis
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