Orchestra Dark Italiana. Nel nome c’è tutto ciò che dovreste sapere: un malinconico ensemble che esegue canzoni in lingua italiana. Se vogliamo aggiungere qualche informazione in più, si tratta di una piccola orchestrina folk post-moderna, un po’ ridotta nei suoi (4) elementi, minimale, ma capace di scegliere abilmente timbri e registri, recuperando esperienze musicali diverse, incursioni nel blues e nel jazz attingendo dalla new wave e dall’elettronica, e ottenendo uno stile definito, compatto già nel suo esordio discografico. Un esordio senza titolo. Nessuna ulteriore aggiunta semantica a un’opera già densa di spunti senza che sia fissato un tema. Le liriche sono composte secondo un’ermetica associazione di idee che procede per scatti, quasi dei lampi. Non si avverte il tempo della meditazione tra un’asserzione e l’altra, c’è un libero e rapido accostamento tra le immagini e i temi carpiti qua e là nel mondo da un Io intorpidito nel suo tedio. Strofe dai toni neri ma pacati. Sembrano composte nella penombra di una stanza insonne in tarda notte, scrutando il buio vuoto del soffitto. Si respira quell’asfittica inquietudine che nel rock ha provocato tanti danni, come nel jazz l’eroina, ma ha fatto un gran bene alla qualità delle discografie. Giappone è esemplare. Dopo l’iniziale arpeggio che ribolle tra mistici colpi di gong, il vocalist fa accenno a una fine e una gustosa rigenerazione (del mondo?, della storia?); poi approda nell’isola nipponica, forse casualmente, seguendo le orme appena percettibili di Fukuyama, Lévi-Strauss, Barthes. La presenza nel lessico di “lieve” e “meravigliosa – forse anche cara – è la fine” insinua il dubbio che siano stati ingurgitati chili di Godano. Più in là nell’album si odono anche riverberi del Consorzio Suonatori Indipendenti ed echi dal dark-blues di un Nick Cave con la dileggiante e squilibrata ritmica cabarettistica dell’ultimo Tom Waits. Tutto ben congegnato.
di Alberto Sartore