Ecco apparire dalla macchina del tempo, direttamente dalle ultime decadi dello scorso millennio, un duo italiano i Modern Blossom per presentare il loro lavoro di esordio Beg For More autoprodotto lo scorso anno. Fin dalle prime note e dai ritmi sintetici di A Common Poetry si capisce qual è la loro matrice e ispirazione, l’elettro pop oscuro e decadente degli anni ’80 e ’90, attraversato da venature dark wave che chiudeva la grande esperienza di gruppi come Bauhaus o Clan of Xymox. Tuttavia con il procedere dei brani il sound smarrisce spessore, i synth e la batteria campionata virano decisamente verso melodie decisamente più pop e di facile ascolto, sfiorando tonalità dance. La voce acuta e leggermente metallica non riesce a catturare l’attenzione, sovrastata com’è da un eccesso di effetti e tastiere, né a trasmettere profondità, eppure non sono la tensione emotiva, né l’interiorità a fare difetto. I testi, cantati in inglese, esprimono un disagio irrisolto e il rifiuto di un mondo terribile. Ma è la sensazione di déjà vu a dissuadere, è come se i Blossom si rifugiassero nel ricordo per sfuggire all’orrore. Un’operazione già fallita in passato con ben altri mezzi. Tuttavia nella seconda parte dell’album i toni diventano meno scontati, la memoria torna ad essere viva con Last Act, I Don’t Own You e soprattutto con la conclusiva Velvet Shoulder, il brano più lungo dell’intero lavoro e decisamente il più convincente. I suoni acquistano intensità, l’aspetto rumoristico, quasi industriale prevale e si libera da orpelli e ammiccamenti pop. La capacità evocativa della musica torna a rivelarsi, al di là delle mode e degli stili che si susseguono. I Blossom sembrano di fronte a un bivio, incerti se affrontare la difficile ricerca di originali spunti musicali o seguire il flusso del mainstream, ossequiosi verso i maestri e quindi ovvi. È arduo confrontarsi con chi ha fatto la storia della musica, ma per andare oltre bisogna necessariamente percorrere da questa strada.