Dopo aver recensito Il rigore esistenziale e un’intervista sullo scorso numero, parliamo ancora di Dario Antonetti. Autoproclamatosi cantautore psichedelico, il buon Dario propone qui un’opera che attinge più al lato cantautoriale del suo creatore, laddove L’estetica del cane era forse un disco più lavorato, più carico e ascrivibile ai canoni del big rock show Floyd maniera. Non che manchino momenti sull’orlo del delirio, e in generale ogni pezzo presenta qui e là irruzioni spiazzanti di sibili ed elettronica varia che accentuano la surrealtà del tutto. È un Antonetti meno rumoroso, ma non meno fuori di testa quello del Ritorno del figlio dell’estetica del cane, e il suo marchio di fabbrica sono i testi sempre ironici, colorati e assurdi che raccontano storie d’ignavia esistenzialista e rapporti umani perlopiù sgangherati. Il nostro ricorda il Gatto del Cheshire: appare e scompare, butta là qualche parola criptica e delirante e ghigna in faccia all’ascoltatore dall’alto della sua lucida follia. Ce lo vedrei bene Antonetti a musicare “Alice nel paese delle meraviglie”, oppure “Il mago di Oz”; le sue canzoni analizzano il mondo e lo spiegano per assurdi e calembour come Carroll e Baum prima di lui. Avessero potuto passare un pomeriggio insieme, i tre, si sarebbero probabilmente divertiti un sacco. E sotto un cielo di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di miliardi di stelle questo disco divertirà anche voi; tra omini con piedi di plastichina e canzoni d’amore per teste di cazzo è difficile rimanere indifferenti alla filosofia solo apparentemente infantile del cantautore psichedelico, che si permette anche di schiacciare Dio, apparsogli sotto forma di moscone. Risveglio, delicata e infinita, chiude il lavoro, palesando la dimensione onirica e allucinatoria di tutta l’opera, e della musica di Antonetti in genere (così mi son svegliato, effettivamente mi ero addormentato). Dopo un sogno lungo sedici tracce ci si risveglia, come Alice, di ritorno da un mondo folle e capovolto tessuto dal musicista a beneficio del pubblico che è suo spettatore e complice. ‘Non voglio andare tra i matti’, fece notare Alice. ‘Oh, non puoi farci niente’, disse il gatto: ‘Siamo tutti matti qui. Io sono matto, tu sei matta’. ‘Come sai che sono matta?’ disse Alice. ‘Devi esserlo’, disse il gatto, ‘O non saresti venuta qui’.