Cranchi

VOLEVAMO UCCIDERE IL RE

In The Bottle Records/Audioglobe, 2012

Le “caramelle cinesi” – come recitava il debut album nel 2011 – oltre ad essersi dimostrate commestibili, anzi buone, evidentemente fanno anche crescere bene, perché il secondo passo è più robusto del primo. Il gruppo del mantovano Massimiliano Cranchi – da qui il nome, come dire, ex uno plures: c’è già un po’ d’anarchia – e compagni (Marco Degli Esposti, Federico Maio, Simone Castaldelli) mette a fuoco altri otto pezzi di cantautorato sobrio ma incisivo. Entra aria fresca all’apertura di Cecilia, che si culla in modo scanzonato e distratto tra il pianoforte e il banjo fino ad essere accompagnata alla porta dal canto di Francesca Amati (Comaneci, Amycanbe). È il primo di una serie di ritratti, racconti e storie minuscole o maiuscole che fanno entrare la cronaca senza necessariamente voler essere militanti: non è “morte al re”, ma Volevamo uccidere il re, e lo scarto non si misura solo tra le intenzioni e la realtà degli accidenti, ma anche tra lo slogan assoluto e la narrazione dei personaggi. E così ecco La primavera di Neda, toccante ricostruzione della vicenda di Neda Salehi Agha-Soltan, la ventiseienne uccisa dal regime iraniano di Ahmadinejad nel 2009. Seguono in ordine cronologico due pagine anarchiche di storia nazionale: quella di Giovanni Passannante, che nel 1878 attentò senza successo alla vita di Umberto I – a seguire la prigionia e il manicomio – e quella di Gaetano Bresci, che nel 1900 riuscì nel regicidio per poi morire in circostanze sospette. A rubare un po’ di nuvole e schiarire il cielo arriva Il Brigante Robin Hood, dal felice inciso al ritmo di banjo. Il Ritorno di Maddalena, invece, non sfigurerebbe tra le migliori di un Francesco De Gregori (ma tutto l’album è in realtà De André che fa da ambasciatore tra Guccini e De Gregori, e questo senza la schiavitù dell’emulazione: non è poco); la dimensione popolare della vicenda biblica si specchia in una melodia di semplicità pastorale. Struggente il fischiettare solitario di Ho lasciato il tuo amore, il momento più intimo e personale, quello dove l’ambasciatore suddetto porta un po’ di pena. L’episodio finale (Guccini alza la voce, tanto per chiudere il cerchio) è una riflessione amara sui più attuali Anni di piombo: si voleva uccidere il re, ci si è sporcati del sangue fraterno. L’immagine di copertina mostra i musicisti con gli occhi bendati come davanti un plotone di esecuzione; ma uno si è liberato e col braccio teso indica la direzione da seguire. Siamo convinti sia quella giusta.

Voto: 7.5

Fabrizio Papitto