SURFACE WAVES
Autoprodotto, 2012
Sgrunt è un pezzo d’antiquario di classe trovato in qualche robivecchi polveroso. La sua ricostruzione pressoché filologica di un certo Grunge particolarmente malato e particolarmente ammorbato è perfetta. È acido, e pesante, è un po’ dissonante eppure melodico. È perfetto. Lo-fi manco glielo avesse prescritto qualche dottore, pare uscito da una notte di sesso inconfessabile tra i primi lavori degli Screaming Trees, Bleach e Screaming Life/Fopp, un’ammucchiata sbronza all’ombra dei freddi boschi del nord-ovest. A volte è impeccabile (Holiday slideshow, cobainiana per scazzo e melodia, molto bella), a volte indigesto (Fine thanks, deforme “boh” che è più inascoltabile che sperimentale, più un pasticcio che avant-garde). Spacca, non c’è che dire, come studente del Seattle sound merita un diecielode secco. Melodie orecchiabili e malatissimi passaggi anni novanta (quelli buoni, non quelli scemi) sono il marchio del disco, che s’aggira tra distorsioni rudi, acustiche nei chorus e un cantato smozzicato che forse ha più debiti con Layne Staley che col già citato Cobain. Per chi, come me, col grunge c’è cresciuto e a quelle atmosfere ansiogene s’è abbeverato finché ha potuto, il disco suonerà familiare; una voce dall’inconscio che ti ricorda la fanghiglia scordata e satura che, archiviata e spolverata, ha tutto sommato avuto una parte fondamentale nel definire chi sei. Sgrunt è incazzoso, morboso, rude, affilato. Urla e stropiccia le sue corde manco gli piovesse in testa sei mesi e nevicasse gli altri sei come i nostri capelloni, tossici beniamini di vent’anni fa. Se Sgrunt ha un peccato, è quello di rimanere sempre nello stesso recinto, senza azzardare più di tanto, probabilmente conscio del fatto che quello che fa gli riesce più che bene. Forse dovrei dargli una sufficienza, però non riesco a rimanere impassibile quando qualche anima rugginosa e vintage (diolabenedica) si mette in testa di riesumare l’ultima grande stagione della musica rock (con buona pace di voialtri indie-rockers dei giorni nostri. Anzi, no. Buona pace un cazzo). Quindi alzo il voto. Ma se il prossimo disco non è all’altezza lo stronco. Giuro. Il grunge è amore, ma è amore spietato.
Voto: 7
Marco Petrelli