Marry Waterson & Oliver Knight

HIDDEN

One Little Indian, 2012

Siamo d’accordo: su questa seconda riunione dei fratelli Marry e Oliver, ultimi rampolli del clan dei Watresons, folk group inglese a conduzione familiare degli anni ’60-’70, poco si può dire di male: è un lavoro fatto a dovere, eseguito e confezionato benissimo, la qualità e la morbidezza degli arrangiamenti bastano ad allontanare qualsiasi ombra di dilettantismo o sospetti sul merito. E su questo in fondo ci aveva già rassicurato l’esordio. The days that shaped me, uscito appena un anno fa, era stato molto di più di un biglietto di visita; disco non solo raffinato e in cui si sentiva tutto il calore della cura per questo mestiere, ma opera di spessore che metteva a nudo un’emotività preziosa e si raccontava in modo non comune. Passi indietro non ne sono stati fatti, forse invece un lieve cambio di rotta, nel senso che l’ironia che lì rimaneva taciuta (secret smile, come recitava l’ultimo pezzo) ora diventa aperta confidenza; ma, qui sta il punto, non sempre con l’effetto desiderato. Al tatto, questo album si dimestica con grande facilità; la stessa, però, con cui perde di unicità, e a rimaere nascosta (hidden, a detta del titolo) è in parte l’ispirazione e la personalità del primo. C’è ancora molta intimità, eppure un’intimità più mainstream, più complice di certe sonorità “da manuale”, per così dire. L’incedere sinuoso di I’m in a mood, che apre l’album con una certa grandezza, l’effetto vinile di Scarlet starlet e della deliziosa Going, going, gone, cartoline che potrebbero essere firmate Norah Jones, Gormandizer in stile Florence + the Machine, una Russian dolls (sostenuta dal trio vocale Coope, Boyes and Simpson) da sostenere con schiocco di dita, e una manciata di altri pezzi tutti ben vestiti ed educati. Nell’esattezza della definizione di Max Sannella, questo rimane “uno di quei lavori non perfettamente in bolla ma che fanno bellezza esponenziale”. Non un passo falso dunque, ma un passo senz’altro più comodo, e che per questo, pur nei suoi limiti, si lascia seguire con rinnovato piacere. Collaborano l’hammond di Reuben Taylor (The Athletes), il violoncello di Barney Morse Brown (Duotone, The Imagined Village), la batteria di Pete Flood (Bellowhead) e il contrabasso di Miranda Sykes (Show of Hands).

Voto: 7

Fabrizio Papitto