“Città sognate” è il titolo del nuovo disco di Giuseppe Girotti. Tra il cantautorato rock ed il pop d’autore, i mood più canonici sono intervallati da rumori e sensazioni splendenti, applicati seguendo logiche oniriche: uno dei leitmotiv dell’album. Mettiamo un punto fermo: si tratta di un album di canzoni, la cui ossatura originale è il sempiterno binomio chitarra/voce (o piano/voce, in qualche occasione). Tuttavia, le canzoni di cui sopra, non scoprono mai le proprie carte, o, quantomeno, ciò avviene molto raramente. La presenza della voce è sempre in primo piano, ben “visibile”, ma il dialogo musicale che sottende il suo discorrer cantando vive di vita propria, non rimanendo necessariamente pendente dalle labbra del cantautore emiliano (o meglio, alle parole emesse dal suo apparato fonatorio). Belli e mai banali (se non addirittura determinanti) gli interventi degli archi (“uomo distratto”, “non ho fatto niente”) e buona la composizione generale dell’album (molte tracce si attestano intorno ai tre minuti di lunghezza, nonostante venga lasciato spazio ad incisi strumentali).
L’artwork del booklet stesso sembra fatto di flashback, vecchie foto e vecchi sogni, dove il tempo sembra aver poggiato la propria impietosa mano. Questa sorta di decadenza, di melanconia consapevole, di sprofondamento in sé stessi è presente in tutto l’album. Non tanto nelle sonorità, quanto nelle sinestesie liriche che si formano tra i testi, per l’appunto, e gli arrangiamenti. Si incappa in alcuni ups and downs (comprensibile, vista l’abbondanza di materiale ivi contenuto e la difficoltà della elocuzione canto misto a parlato, modalità in cui è complicato mantenere viva l’attenzione) ma l’ascolto complessivo non ne soffre troppo. Da rimarcare la presenza di piccole perle nascoste qua e là, come la suggestiva outro “camminare”, in cui le note roteanti di un organo sembrano accompagnarci, quasi come se fosse Orfeo stesso a prenderci per mano, fuori da un sogno.