Geoff Farina è in tour in Italia. Un mini-tour per presentare il suo album da solista, Whishes of the Dead, con otto date in otto giorni, da Messina a Padova, spostandosi esclusivamente in treno. Lo abbiamo incontrato nella sua quinta tappa, Umbertide, un piccolo centro di sedicimila abitanti a nord di Perugia. Il concerto è al Cinema Metropolis, una bella struttura da 99 posti al centro del paese, gestita dall’Associazione Culturale Effetto Cinema. Un’oasi culturale nel centro abitato, in Piazza Carlo Marx, tra complessi condominiali e spiazzali, negozi dalle serrande chiuse e parcheggi vuoti, strade inaspettatamente molto larghe. Nei pochi bar aperti si beve vino bianco e si guarda il calcio in televisione. Ritorna alla mente uno sketch di simpsoniana memoria quando al grosso barman chiedendo un’acqua frizzante si ottiene in risposta “del vino bianco frizzante?” e chiedendo se c’è un bagno: “vuoi un bianco?”.
Arriviamo al cinema alle 21:00, c’è già della gente all’ingresso del Metropolis. Il luogo ospita usualmente film d’autore e/o d’animazione per i più piccoli, come le locandine cinematografiche testimoniano. A onor del vero, un concerto c’era già stato, nel lontano 2005. Un’altra indie band americana, questa volta da Chicago: i Joan of Arc di Tim Kinsella. Un bel concerto, pare, molti in fila alla biglietteria ne rievocano con piacere l’esperienza. Geoff Farina è noto ai più come ex-leader dei compianti Karate, band in grado di fondere jazz, slo-core, punk, offrendo un proprio competente e tecnicamente valido contributo anche allo sviluppo del post-rock. Tra il pubblico non molti hanno già avuto modo di ascoltare Wishes of the Dead. Aleggia una certa curiosità, ma anche un certa nota amara per la certezza che lo stile dei Karate ormai Farina se lo è lasciato alle spalle, sin da quando, nel 2005 (l’ultimo show fu a Roma nel luglio di quell’anno), annunciò che per problemi all’udito non avrebbe più potuto continuare a suonare con la band e, in generale, a volumi troppo elevati. Il musicista resta comunque un modello di un certo modo di fare e intendere la musica. Dell’etica do it yourself accompagnata all’attenzione e meticolosità delle scelte musicali, dell’interplay anche in ambito post-rock, dell’improvvisare ma non dell’improvvisarsi, di un’estrema invidiabile libertà espressiva. Il nostro auspicio è che l’esperienza dei Karate torni utile anche alle odierne indie-band. Ci apprestiamo all’intervista con in mente questa consapevolezza…
L’appuntamento con Geoff è presso il cinema venti minuti prima dell’esibizione, ci rechiamo alla biglietteria per sapere dove incontrarlo. L’addetto ci apre la porta di vetro di fianco allo sportello e ci dice di entrare: “È proprio qui dietro”. Varcata la soglia, Farina, testa rasata e camicia di jeans, ci viene incontro sorridendo timidamente. Togliamo i cappotti, ci accomodiamo sulle sedioline di legno, accendiamo il registratore, tiriamo fuori blocchetti e penne e iniziamo a conversare.
Salve Geoff. Sei qui in Italia in tour per presentare il nuovo disco ed hai scelto di spostarti tra una città e l’altra esclusivamente in treno… Noi conosciamo bene le ferrovie italiane, per cui la domanda è: ma sei sicuro? Sei particolarmente sensibile al problema delle emissioni inquinanti o devi espiare qualche colpa di cui ti sei macchiato?
Niente di tutto questo… ecco ciò che suono (indicando una custodia rigida messa in un angolo), una chitarra! Viaggiare in treno semplicemente è più economico piuttosto che affittare una macchina e pagare la benzina solo per me e la mia chitarra… Non è una punizione (ride)… Ho guidato in tour per molti, molti anni e non è affatto l’ideale! Quando guido durante i tour arrivo e sono già quasi sfinito, tutto il giorno passato sulla strada… E poi è costoso. Se sono con una band si può fare, ma se sono solo ha molto più senso prendere un treno. A volte prendo l’aereo da uno show all’altro, volare per otto ore è più conveniente che guidare otto ore, più veloce, più semplice e meno stressante…
Era solo una curiosità, adesso arrivano domande più serie…
Si sì, certo.
Entriamo nel merito del tuo nuovo disco, cos’è che ti ha ispirato in questo lavoro?
Beh, ho vissuto a Boston per vent’anni, e poi mi sono spostato per motivi di lavoro in una piccola cittadina del Maine per un anno, lungo il fiume Kennebec, nella regione del New England… Ora vivo a Chicago, ma quell’anno vissuto in New England mi ha portato a scrivere le dieci canzoni di The Wishes of the Dead. Quindi, sai, l’album contiene le diverse cose di cui ho fatto esperienza quando ero là, o che ho immaginato. L’ambiente mi ha influenzato moltissimo, era un posto molto isolato e anche questo ha inciso parecchio. Ho cercato di trasferire sia nella musica che nei testi del disco quello che avevo attorno, le emozioni che provavo e le esperienze.
Il titolo, The wishes of the dead, da dove deriva?
È un verso tratto da una canzone dell’album… Ho vissuto in un posto che fu fondato da emigranti europei centinaia d’anni prima, e ho scritto un pezzo intitolato Hammer and Spade su quest’insediamento. Parla un po’ della storia di questo paesino, cose che ho immaginato su come queste persone lavorassero, fino ad arrivare ai giorni nostri. E The Wishes of the Dead è semplicemente un verso di questa canzone. I “morti” sono le persone che arrivarono duecento anni fa e si stabilirono in quella zona.
Adesso presenti il disco in Italia. Non è la prima volta che suoni nel nostro Paese, magari ti sei fatto un’idea del pubblico italiano…
Beh, il pubblico italiano è diverso di zona in zona. Il pubblico di oggi è diverso da quello che era a Viterbo due giorni fa, penso dipenda molto dalla città. Quello che mi piace dell’Italia e il motivo per cui ho conosciuto un sacco di gente qui è che gli italiani non hanno paura di venire da te e dirti cosa pensano. Ad essere sinceri non sono un tipo molto socievole, ma quando sono in tour in Italia un sacco di persone vengono da me e mi fanno domande e questo mi costringe ad entrare in contatto con gente nuova. Credo sia una cosa davvero buona per me. Ovunque vada in Italia, finisco per conoscere gente nuova, farmi nuovi amici. Credo che gli italiani siano molto aperti, non hanno niente da nascondere, sono semplicemente loro stessi. Io culturalmente mi sento italoamericano: la mia famiglia viene dal sud, i genitori dei miei nonni venivano da L’Aquila, Palermo e Napoli. E anche mia moglie è italiana.
Hai conosciuto in Italia tua moglie?
Ho conosciuto mia moglie al primissimo concerto che i Karate hanno fatto in Italia. Ad essere sinceri fu il suo ragazzo di allora che la portò al concerto, lei non voleva venire (ride). L’ho incontrata nel Marzo del 1998, ed era la mia prima volta in Italia.
Molti italiani ascoltano la tua musica… tu ascolti musica prodotta in Italia?
Un po’. Qualcosa l’ho ascoltata tramite il gruppo italiano con cui ho suonato, gli Ardecore. Conosco qualche vecchia canzone che ho imparato grazie a Giampaolo e agli altri ragazzi. Conosco un po’ De Gregori e altri cantautori grazie alla famiglia di mia moglie, a cui piacciono molto. E ci sono delle band italiane con le quali siamo stati parecchio in tour. Gli Zu, ad esempio, e anche un altro gruppo italiano che ora non suona più. Conosco questi gruppi… Non so molto altro di musica italiana, mi piacerebbe saperne di più.
Ancora Italia nella tua biografia: nel 2005 dopo una tappa a Roma i Karate annunciarono il proprio scioglimento… Il tuo otorino in quel momento fu l’uomo più odiato al mondo, almeno tra i tuoi fan…
Lui è italiano, sai? (ridendo) È di Pordenone!
Ma il tuo problema all’udito fu l’unico motivo per cui hai deciso di sciogliere la band e cambiare genere musicale? Mi sembra che insieme all’indie-ad-alto-volume tu abbia lasciato alle spalle anche una certa influenza jazz…
La cosa dell’udito fu un grosso problema, e lo è ancora, ma fu… sai, una specie di scusa. Abbiamo lavorato insieme per dodici anni, e siamo stati in tour per un sacco di tempo suonando in centinaia e centinaia di concerti, e per quel che mi riguarda volevo veramente provare a fare qualcosa di diverso, musicalmente. Con i Karate ho impiegato molte delle mie energie e volevo seriamente cominciare daccapo e provare a fare qualcosa di nuovo. Credo che ogni gruppo abbia una sua durata e mi sembrava di dover provare a fare qualcos’altro. Voglio bene a Gavin e a Jeff, volevo che rimanessimo amici, e mi sembrava un buon modo per chiudere quella storia. Siamo ancora molto vicini. Molti gruppi vanno avanti finché non cominciano a litigare tra di loro e io non volevo che accadesse. Siamo stati in tour per molto tempo e a me andava di fare qualcosa di diverso, e non potevo suonare in una rock band assordante perché avevo avuto quel problema con l’udito. Mi sembrava di fare del male a me stesso, sono andato da un paio di dottori e mi sono dovuto fermare per un po’. Dodici anni sono un sacco di tempo per qualsiasi cosa. Sai, abbiamo iniziato quando eravamo piuttosto giovani, avevamo più o meno vent’anni, poi siamo cresciuti e semplicemente mi andava di provare qualcosa di diverso, ecco il motivo.
Il country è il cambiamento di cui sentivi bisogno? Richiama uno stile lontano dal tuo background musicale o lo portavi già nel tuo bagaglio?
Penso sia stato un grande cambiamento… Mi piace ancora il jazz, e lo studio ancora, e ci penso ancora. È sempre un’influenza in un certo senso. I Karate avevano uno stile molto particolare, molte influenze diverse. Quando ho iniziato a suonare in acustico il country è divenuto molto presente perché alla fine è quello il suono di una chitarra acustica, ha quel suono, non puoi farci niente. Mi sono interessato sempre di più al country e al fingerpicking del Piedmont. Con i Karate facevamo un disco all’anno ed era più o meno la versione differente della stessa cosa. Qualcuno dei dischi era buono ma… Semplicemente mi andava di fare qualcosa di diverso e l’ho fatto.
(Intervista a cura di Agostino Melillo e Marco Petrelli)