Si gioca un po’ a fare gli americani, come da piccoli si giocava a fare gli indiani. Ma non c’è solo la dimensione ludica a manovrare questo esordio del trentaduenne sassarese Gian Paolo Oggiano. Deraglia l’armonica con il suo soffio acuto, le chitarre giocano sulle corde più sottili, si corre sugli arpeggi della staffa finché il sole rimane in equilibrio, poi, se non c’è fretta, nelle ore più mature, quando il galoppo del giorno cede al passo della sera, c’è il tempo per una ballata sotto la grancassa bianca della luna. L’iniziale Come on, con l’attacco strumentale in perfetto stile Bennato, è un invito al viaggio, tra voci roche e incitamenti pirateschi; Chains of love la segue correndo sugli stessi binari. Il brano più riuscito sembra però essere la successiva A song for you, una love song dall’incedere lento e dal ritornello tiepido e avvolgente, con un’elegante coda acustica a trattenerne il sapore. Il viaggio continua; è un viaggio piccolo, otto tracce in tutto; al centro, a fare da spartiacque, arriva la cover; è Meet me on the corner, un classico dei Lindisfarne, band brittanica che negli anni ’60/‘70 era tra le protagoniste del cosiddetto folk revival. L’operazione è discreta e preziosa: in quegli anni era ai primi posti in classifica ma quanti della generazione post ’80 hanno non dico ascoltato, ma anche solo sentito parlare dei Lindisfrane? (chi scrive si è imbattuto in questo pezzo una sola volta nella colonna sonora della serie tv inglese Life on Mars). Da qui in poi il viaggio prosegue con un colore diverso, più disteso e rilfessivo, non abbandonando mai sonorità morbide e delicate, di cui il miglior esempio è l’andante Lovebirds, mentre la successiva You are so hard segna il momento più crepuscolare dell’album. Chiude una I lost my way (della serie “l’importante è perdersi”) che con un altro arrangiamento avrebbe brillato molto più in alto e che rimane quindi comunque un buon pezzo. Quando la session (musicale) diventa obsession (il titolo dell’album non è dei migliori, diciamo la verità) vuol dire che c’è un’esigenza di ridare vita a un immaginario; non che riesca sempre ad essere altro, ma va benissimo così.