COLTIVARE PIANTE GRASSE
Libellula Music/Audioglobe, 2012
Non è semplice passione per queste piante decorative cui la moda decretò un posto d’onore negli appartamenti di molte città d’Europa circa un secolo fa, coltivare piante grasse potrebbe diventare un insolito rimedio omeopatico contro il malessere psicofisico e magari anche contro l’alienazione. Quantomeno è questo l’ironico suggerimento che accompagna l’ascolto di Coltivare piante grasse, esordio discografico full-length dei torinesi Med in Itali.
La band nasce in Irlanda nel 2007, dove i componenti suonavano come buskers per le strade di Dublino; poi il rientro in Italia. I cinque anni di gestazione trascorsi tra la fondazione e l’esordio discografico sono significativi, sintomatici di un’attenzione per la costruzione live del sound, esibizione dopo esibizione, e di una composizione dei brani che si realizza nel corso delle varie esecuzioni. Ne risulta un disco molto solido, maturo, che per organicità e accuratezza potrebbe ambire al rango di concept album. Di certo questa possibilità meriterebbe un’analisi a sé stante, più approfondita, per rilevare non tanto un presunto valore letterario dell’opera – non ci aspettiamo di rilevarlo – quanto l’interessante movimento omogeneo dei toni e dei temi, degli umori e delle sensazioni evocate. Un lieve crescere e decrescere tra la costruzione e la negazione dell’identità attraverso le abitudini e gli stili di vita e tra la possibilità e l’impossibilità di cambiare se stessi e il proprio mondo.
La capacità e l’estro dei musicisti è notevole, a proprio agio con tempi dispari, soluzioni ritmiche complesse, pastiche musicali (dilettandosi talvolta in sortite citazioniste, come nell’accenno vagamente dissimulato al tema di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Morricone, in Piante grasse). Il sound proposto risulta originale nell’insieme. Qualche eco dalla Dave Matthews Band più jazzata (Perle Umide), o dai Marta sui Tubi (Mia Identità), ma sono poco più che suggestioni.
I testi di Niccolò Maffei (voce, chitarra e banjo) sono accurati, talvolta arguti, al pari degli arrangiamenti, con cui cooperano a dovere. L’ironia, sovente amara, circonda l’opera, pervade l’ascolto. Ed è l’ironia che interviene puntuale a produrre quel sottile straniamento che fa sì che il disco non risulti mai banale, neanche nei suoi momenti più “leggeri” ed “orecchiabili” (7 Fiori).
VOTO: 7,5/10
Agostino Melillo