Il Gabinetto del Dottor Starsky

“Now we’re old and grey Fernando
And since many years I haven’t seen a rifle in your hand
Can you hear the drums Fernando?
Do you still recall the frightful night we crossed the Rio Grande?
I can see it in your eyes
How proud you were to fight for freedom in this land”

Ho sempre avuto problemi con le date e gli anniversari, attirando su di me antipatie e livori da parte di donne e ragazze e altre persone che se la prendono per queste cose, gli stessi che mi chiamano ogni volta che ho un anno in più, ribadendo l’orrenda sensazione di dover celebrare i trentaqualcosa anni da quando son qui a perder tempo, e nessuno mi ha mai chiesto niente, se mi piaceva per caso il nome che avevano scelto per me o la condizione economica nella quale sarei dovuto crescere, che poi pensi a chi si chiama Tancredi che era il nome di un grande portiere della Roma ma anche un nome d’aristocratico pignolo nelle scelte culinarie e tutto questo, e ci ripenso che magari poteva andarmi peggio.
Insomma, mai, non me li ricordo mai – anniversari, compleanni, la festa della fame e della sete in provincia di Pizzighettone, la sagra della pasta e ceci che tutti gli anni mi riprometto di ritornarci che una volta ci ero andato e mi ero divertito molto, avevo forse dodici anni e il caschetto da demente, me lo ricordo con imbarazzo e vergogna.
Nulla.
Forse faccio apposta a non ricordare queste cose, almeno non faccio quella faccia d’imbecille con un mezzo sorriso – che pende solo da una parte – e l’occhio da Bobby Solo, un po’ triste un po’ no, toh, son passati tot anni, minchia come passa il tempo, ma vaffanculo domani mi sveglio sotto a un cipresso.
Dieci anni sono passati, da quando con il direttore si andò da qualche parte dove c’era la nebbia – Alessandria, Voghera, chi lo sa – con la fanza sul tavolo e con dei birrini in lattina e poi la sera al baretto del quartiere con la barista che sognava di fare altro della sua vita, forse la parrucchiera, e noi che gli chiediamo un Uait Rascian e lei che tituba, barcolla, sbuffa e ci serve infine un qualcosa di raffazzonato e imbarazzante, ma noi contenti perché erano dieci anni fa, e dieci anni fa la gente era più contenta.
Insomma gli anni passano e FB compie dieci anni, cinquecentoventi settimane di “da domani si cambia” ripetuti a Sutra del Diamante davanti allo specchio la mattina.
Invecchiare non è male, comunque, puoi ancora fare tutto come prima, basta che lo fai meno di prima.
Mi son reso conto di una cosa, però, e cioè che non ci ho più voglia di ascoltarmi i gruppetti nuovi che escono e ricominciano con la tiritera “noi siamo diversi, cazzo spappoliamo tutto, siamo i meglio, gli U2 ci fanno una pippa”, che poi siamo tutti d’accordo che gli U2 gli fanno una pippa, ma queste cose le abbiamo ascoltate un gazillione di volte, e poi giù la solita chitarra e le solite robe i soliti testi e le solite mosse da rockstar, i soliti occhiali da sole quando il sole non c’è, il solito giubbottino di pelle con la solita spilletta che non c’entra un cazzo con il resto dell’abbigliamento, che magari dice “Skinny jeans/Baked beans”.
E poi tutti al baretto sotto casa mia a perder tempo, a bere delle birre del cazzo del Belgio che è un paese insulso, a rompere le palle con le loro discussioni della ciolla, e io e il mio amico Blackman che volevamo solo sgazzare delle Ghinnes e invece ci dobbiamo ciucciare la gente cool.
Ho il rigetto, una sorta di allergia esotica a tutto ciò che è giovane, magro stecchito, arrogante e beve birre sbagliate.
Allora ascolto sempre le stesse cose, anzi divento sempre più conservatore: Humble Pie / Rolling Stones / Beatles / Small Faces e poi a letto, un’altra giornata è passata ed io ho regalato al mondo un’altra struggente versione di Tin Soldier, cantata davanti alla finestra del soggiorno così mi posso vedere mentre mi esibisco, poi d’improvviso vedo il riflesso del mio coinquilino che si alza dal letto per andare a pisciare e gli riconosco un’espressione sul volto tipo “questo è scemo, canta sempre la solita canzone, tutte le sere, mezzo gonfio di birra in lattina”.
Allora un giorno mi son svegliato e ho detto vai si cambia, largo ai giovani con le pettinature imbarazzanti.
Era naturalmente una cazzata che cercavo di vendere a me stesso.
Non ce l’ho fatta. Allora mi son detto andiamo a vedere qualcuno che faccia delle robe classiche ma in chiave contemporanea, remissatori di oldies but goodies, messaggeri oscuri del pastiche postqualsiasicosa, paladini della rilettura in chiave faccio un po’ come cazzo mi pare.
Ecco allora che ho scoperto i Gabba, che fan roba degli Abba in versione Ramones, i Mini Kiss, che son dei nani che rifanno tutte i grandi successi dei Kiss con la fazza pintata e la lingua di fuori, Mandonna, che è un travestito cileno che fa le canzoni di Madonna però è uomo e allora si chiama Man Donna e giù le risate.
E le sorprese non son finite, ho ascoltato i Beatallica che rifanno i Beatles come fossero i Metallica, e gli Apocalyptica che fanno in Metallica solo col violoncello, t’immagini che trituramento di maroni ascoltare Master of Puppets tutta al violoncello, chi lo sa che gli passa per la testa a questa gente, a volte penso che siano detonati nel cervello e così via.
L’altro giorno ero giù al pub a vedere il tributo a Tom Jones, le vecchie inglesi con la bigiotteria e i vestiti di Barbie Raperonzolo e il capello fluente permanentato duro che perdono il senno e ballano a piedi nudi sulla moquette e via dicendo.
Il remix è Il futuro, la distorsione di un suono per arrivare al suo contrario, il rimestare nella marmitta delle influenze e farsi un tiro di Zappa e uno di Zarrillo e vedere cosa salta fuori.
Io ci sto. Anch’io mi voglio strafare di postmodernismo e monnezza. Ho pensato a metter su una band che fa Pavarotti in chiave Pantera; il nome mi è venuto in mente vedendo le attempate fan di Tom Jones, senza scarpe sudate e spettinate, allora lì ho avuto l’illuminazione e ho detto Pavarotti rifatto Pantera, il nome del mio gruppo sarà Pancera.

Buon compleanno, BF.

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