Rocco Paternostro “La vita nuova tra gesto e memoria”

Saggio di ampio respiro, nondimeno capace di una suggestiva linea, quella del “gesto” e della “memoria”, che ne contraddistingue il percorso. Scritto covato nella polvere del tempo, quella di un ventennio a preludio delle stampe, dove passato e presente s’interpellano ritrovando una Weltanschauung nell’atto d’amore che, solo un archeologo dell’anima, è autenticamente in grado di comunicare nel suo arcaico splendore. Un’analisi che si articola, anzitutto, attraverso gli altalenanti processi politico-sociali sullo sfondo storico che caratterizzò Firenze nella seconda metà del Duecento. Nel bipolarismo guelfo-ghibellino cresce, divenendo indipendente e determinante, l’assetto politico borghese, cui farà seguito anche quello del popolo minuto in precari giochi di alleanze e potere. Tra forti tensioni e carenze d’equilibri in atto, Dante ritrova in Dio la “risposta alla crisi istituzionale”, valenza storico-esistenziale di un “gesto”, o piuttosto scelta, “dovere della scelta ad ogni bivio”, come riportato nell’esergo che rimanda a Kierkegaard. Beatrice è il suo vettore, cristocentrica metafora, retaggio di una sincretica e più complessa sintesi ratificante il propedeutico genio dell’autore della Vita nova che poi, attraverso la Commedia, si erigerà a sommo. Beatrice induce il viaggio, quello attraverso la memoria, salvifica esperienza di rivelazione volta a re-significare la vita, virtù e ragione dell’anima, “velo [in terra] dell’eterna verità”, così come viene citato da De Sanctis.
Con i nuovi modelli che, in quest’epoca, andavano affermandosi, se da una parte traspare un esaltato fervore religioso con radici popolari, di cui San Francesco è il suo exemplum migliore, dall’altro si palesano taluni ideali di nobiltà feudale divenuti borghesi a qualificare i “nuovi poeti” attraverso la Sicilia di Federico II. Esigenze aristocratiche che riconducevano a spinte verso canoni morali, di stampo laico, distinguendosi da condizioni lascive e da fanatici moralizzatori, ma le loro “donne-angelo” altro non erano, tutt’al più, che un primo aspetto materico con cui compare Beatrice. Al poverello di Assisi ed alcune corrispondenze con la vita di Cristo, Dante si richiamava, come pure ai modelli provenzali, quelli del sentimento predominate sulla sessualità, in una tradizione ricca di addentellati classici dove, nella fattispecie, la forma del prosimetro riconduce al De consolatione philosophiae di Boezio. A fianco del pensiero francescano e le “basi agostiniane e platoniche” emerge, col Duecento, il tomismo e il binomio “fede e ragione”, fondato sui retaggi aristotelici dell’Aquinate. La poetica dell’ “amore cortese”, filtrato attraverso l’esperienza teologica, con Dante diviene avamposto escatologico, presupposto di conoscenza e fede strutturato sul sistema della scolastica.
Nella stratificazione del linguaggio dantesco ci si addentra nelle trame dei simboli, qui ricorre soprattutto il nove, che procede da quel numero primo che indica la trinità fino a configurarsi con Beatrice, il miracolo, “l’immagine più compiuta”, forma e sintesi del “suo linguaggio parabolico-cifrato”. Superando dapprima la poetica del Guinizzelli e del Cavalcanti poi, Dante eleva Beatrice ad allegoria spirituale, fintanto da assimilarla a talune vicende del Cristo. Attraverso ruoli sacramentali, soprattutto quello eucaristico, e procedendo per analogie, la figura di Beatrice riconduce al primigenio amore cristiano, l’agape-charitas, “l’essere amati e l’amare”. Un Dante che, di fatto, si poneva al di sopra degli schemi lirico-cortesi “nell’atteggiamento esistenziale”, oltrepassando l’eros. Nondimeno assurge a “poeta nazionale” nel distinguo di una propria estetica che, prendendo le distanze da Oltralpe, segnerà anche l’identità letteraria italiana.
La reminescenza, aristotelica evocatrice di ricordi, si distingue dalla memoria, dimora di Dio agostiniana, caratterizzando l’anabasi dantesca in Beatrice, traslato di un fine ultimo ed anche origine di una medesima verità circolare. Sono “sigle mnemoniche”, chiavi di accesso ai “sentieri della rimembranza”, quelle che Dante fruisce in una strutturazione di rubriche e paragrafi tripartiti con prosa, versi e commenti a rappresentare un ideale “edificio mnemonico”, conforme “alla pianta di una cattedrale gotica” nell’impronta della croce. Una Vita nova relazionabile al dramma sacro, che formula, per Paternostro, il palcoscenico di un “teatro della memoria”. La retorica, nella sua dimensione cristianizzata, pone la “memoria artificiale” come “habitus morale” attivando un processo prudenziale nell’ineluttabile binomio “salvezza e dannazione”, soprattutto attraverso impianti come quello dell’ars memorandi di Tommaso. La scelta, quindi, il “soprastare a le passioni”, giunge e si manifesta, anche per il poeta, nell’apporto della tragedia, segna il sentimento e la cifra del bene e del male, elemento, quest’ultimo, funzionale all’iniziazione nel background letterario medievale, nonché metafora esistenziale. Dulcis in fundo, “il testo del ‘libello’ dantesco” reso a tergo del saggio, un evergreen di amorevole impegno e propositiva coerenza.
(Enrico Pietrangeli)