A partire dal titolo, semplice e diretto, privo di ogni pretenziosità, si percepisce l’effettivo impegno a rendere poesia alla poesia attraverso lo strumento della traduzione, cosa mai abbastanza del tutto evidente e che spesso sfugge ai più deviando dall’autenticità dell’espressione poetica originaria. Un titolo comunque preso in prestito dai versi di Arpád Tóth, che esplora cosmiche distanze alla ricerca di una spontanea comunicazione. Eventuali imperfezioni linguistiche ravvisabili nel testo non degenerano mai la trasmigrazione del sentire, semmai denotano l’assenza di strutture nel sostenere interessanti iniziative culturali piuttosto che carenze da parte di chi, coraggiosamente, si cimenta con ottima padronanza verso una lingua acquisita. Va oltremodo precisato che, attraverso la rivista Osservatorio Letterario, da molti anni l’autrice si prodiga nell’interscambio culturale tra Italia e Ungheria. Tra quante poesie riportate, ci sono versi che, frequentemente, incorrono nell’anafora, ma ricorrono anche rime e assonanze che la traduttrice ricostituisce scrupolosamente in italiano. L’analessi, soprattutto quella del “bacio” e delle “labbra”, caratterizza più poeti mettendo in rilievo quegli artisti dalle più accertate radici romantiche. Endre Ady testimonia subito tutto questo, soggiorna in Francia, dove scrive Autunno a Parigi, e qui assorbe talune tendenze tracciate dai maudit, che meglio si palesano nel grottesco de L’ultimo sorriso: “ho vissuto molto male / che bel cadavere sarò”. Più datate, ma nondimeno efficaci, sono le quartine amorose di Csokonai Vitèz: “Mi tormenta il fuoco ardente / dell’immenso amore rovente”. Amore che si sublima nei versi del grande Attila József: “ci fonderemo, in color rovente / sull’altare fragrante ardendo / nell’immenso firmamento”. Gyula Juhász, che muore suicida come József nello stesso anno (1937) e, al pari di quest’ultimo, presenta evidenti disturbi psichici, è pure un altro illustre poeta lirico che nelle parole dell’amata scorge “il vento di marzo” tra le sepolture. Con Ferenc Kölcsey, autore dell’inno nazionale ungherese, prende corso un’anamnesi storica del magiaro e la sua “sorte avversa”, popolo che “già espiò / il passato e il futuro”, tra “l’altera reggia di Vienna”, “mongoli rapaci” e turchi. Una sofferenza storica rimarcata da Dezso Kosztolányi: “splende il sol, ma non ti vedo / per il mondo il magiaro / è orfano”, ma è Sandor Petofi l’emblema del patriota, nonché eccelso poeta nazionale, immolandosi, poco più che ventenne, alla causa: “alzati, magiaro, la patria ti chiama!”. L’ Esistere, “ovunque invisibile” e “in ogni cosa visibile” volge al metafisico con Ronáy, mentre è una kafkiana rinascita quella di Szabó, che nel baco intravede un angelo e un rifugio. Tematiche religiose ricorrono con Dsida, Abranyi, Reményik Biró e Horváth. Scaturiscono, pregevoli, i versi di Mihály Vörösmarty, con le sue invettive amorose, e quelli di Sandor Weöres nel suo labirintico bosco. Nella sezione dedicata ai contemporanei va senz’altro menzionata Olga Erdös, un talento sostenuto, a ragion veduta, dall’autrice del testo. Si distingue per le sue immagini penetranti ed originali: “fiore d’una rampicante pianta / sul recinto putrido / coi petali da farfalla”, “pensiero di cognac impregnato, / punto interrogativo pietrificato”. Eccellente lo stile prosastico di Jácint Legéndy, come pure il minimalismo strutturale del naturalizzato tedesco Alfréd Schneider, che attraverso gocce di pioggia scorge ovunque noia in una “massa di minuti paracaduti”. Rilevante la testimonianza di Erzsébet Tóth, che attraverso i suoi versi riporta alla memoria una Polonia sbranata da nazisti e comunisti. Un poesia che è un dovuto omaggio alle vittime dello di Katyn, uno sterminio a lungo occultato ed operato dalle truppe sovietiche agli ordini di uno Stalin che, col patto Molotov-Ribbetrop, caldeggiò il sogno di un’Europa liberale massacrata da Hitler. Fortunatamente, poi, quest’ultimo fu abbastanza dissennato da mandare in fumo un simile progetto, ma Budapest ci ricorda quanti sacrifici sia costata ancora la libertà per tutta l’Europa dell’Est. Presente anche una sezione con alcune poesie di Melinda Tamás-Tarr bilingue, rilevante il suo monito alle nuove generazione (perlopiù scriteriate e prive di valori) affinché onorino i propri genitori. Estremamente condivisibili sono le sue equidistanti posizioni da monopoli di scienza e religioni, da dogmi ed illusioni, espresse in una poetica fluida, moderna ed incisiva. Una lunga nota biografica sull’autrice conclude il libro mettendo in rilievo come, frequentemente, pur avendo competenze ed impegno, in questo nostro ‘belpaese’ si resti ai margini. L’Italia resta pur sempre un luogo dove la certezza dello stipendio fisso non è mai sinonimo di professionalità, bensì predestinazione elitaria dovuta a parentele e conoscenze. Prima di leggere quest’opera, conoscevo solo qualcosa di Attila József e Sandor Petofi, eppure avevo già sensore dello spessore poetico di un popolo, ma ora, senza più ombra di dubbio, posso affermare che credo molto nella poesia ungherese: c’è tanto sangue nelle vene, senso epico, capacità di scavare nel fondo, perciò rivendico la necessità di un prodotto di qualità, perché manca, perché merita.
(Enrico Pietrangeli)