Brasov, Romania. Ore due del pomeriggio. E’ inverno. Il treno lascia la stazione in orario. Direzione: ovest del Paese, Arad. Nel concitamento trovo posto a sedere in uno scompartimento polveroso, con i sedili plasticati bordeaux, che per certo hanno visto la rivoluzione. Di fronte a me siede Rodica, che la rivoluzione l’ha vista a vent’anni. Capelli nero corvino, labbra avvenenti. Ha lo sguardo curioso, mi offre un dolce con i semi di papavero. Vuole sapere tutto di me, parla uno stentato inglese, fa la psicologa ed insegna in un liceo. Mi racconta che viene da Tulcea, la città delle meraviglie del Delta del Danubio. Me la immagino come la città dei tramonti e delle canoe lente. E intanto il treno dondola e con esso i miei pensieri su questa nazione che scommette sul suo futuro. I vagoni aprono varchi su paesaggi ignoti alle automobili, ondeggiano a due passi dai fiumi, dividono in due villaggi, uniscono amori, speranze, famiglie. Nel frattempo entra nello scompartimento Oana. Solare, acqua e sapone. Ha diciannove anni, studia relazioni internazionali a Bucarest. E’ emozionatissima mentre sistema il suo enorme bagaglio. “Dove sei diretta?” chiede Rodica. “A Budapest, vado in Erasmus!”. Non sa cosa le aspetta, ma è felice di andare all’estero. E i pensieri subito corrono ai grandi esodi romeni di questi anni, agli autobus che fanno la spola tra l’Italia e la Romania. Penso a tutte le storie di vita che ci sono dentro a quegli autobus. Penso alle famiglie divise, alle nonne che crescono i piccoli, alle ore passate al telefono. Dal finestrino del treno osservo case in ristrutturazione, nuove abitazioni, il simbolo di una ricchezza crescente, che vuole voltare le spalle agli anni di stagnazione del comunismo. Chiudo gli occhi. Come una moviola vedo le code di donne e uomini fuori dai negozi semi vuoti, in attesa della loro razione di cibo mensile; sento l’orchestra di fiati che accompagna un funerale ortodosso ed i bambini che schiamazzano. Poi un bagliore, dall’alto, il sole che si fa spazio tra i bloc, da dove sventolano lenzuola appese ad asciugare. Qualcuno mi chiama piano, poi sempre più insistentemente, mi sento afferrare il braccio. Sobbalzo e mi sveglio. Rodica gesticola istericamente mentre si sistema la giacca: “Sono le nove, tra poco entriamo in stazione ad Arad!”. Un viaggio, cento storie. Il treno culla le vite dei suoi viandanti, tra giorno e notte, veglia e sonno, chiacchiere e aromi di primizie condivise. Il convoglio in perfetto orario tace davanti alla banchina della stazione di Arad. Un uomo galante, molto alto, di non più giovane età, afferra la mano di Rodica. E’ questione di un attimo ed il loro abbraccio diventa il collante di due storie, di due capi della Romania, di due passati ed, ora, di due presenti. Il treno sbuffa e riparte svogliatamente. Direzione: Budapest. Sorrido, rifiuto il passaggio in taxi dei due amanti e scompaio nel buio di questa notte di freddo polare in Romania. Un passo dopo l’altro, non faccio altro che riflettere sulla mia generazione, figlia degli ultimi barlumi del socialismo e della cortina di ferro. Penso a noi, a quale ricchezza serbiamo, alla nostra identità e a questi anni. Ma ora è tempo di dormire.
(Silvia Biasutti – fri.80s@gmail.com | www.flickr.com/fri | www.silviabiasutti.wordpress.com)