Paolo Ruffilli Le stanze del cielo (Marsilio – 2008)

Cantico dei drogati di De Andrè riconduce ad un Sessantotto poetico e altrettanto tragico, che già sbirciava negli anni a venire del decennio rivoluzionario e, non a caso, finisce invocando: “tu che m’ascolti/insegnami un alfabeto che sia/differente da quello/della mia vigliaccheria”. Un coraggio orfano d’ideali, esperienza comunque condivisa passando attraverso una forte etica ribelle, talmente determinata che dell’impatto resta tuttora l’eco della moltitudine di sensibilità perdute lungo quella strada. “Perché non hanno fatto/delle grandi pattumiere/per i giorni già usati/per queste ed altre sere” è l’utopia nichilista per taluni evoluta in illusione assassina, ma che tuttavia spinse a pensare e a confrontarsi per un mondo migliore. Dall’emarginato visionario scoppiato di un tempo c’è l’evoluzione all’integrato imploso d’oggigiorno, la tossicodipendenza che si distingue e paradossalmente contrappone da quella di allora per un vuoto imposto a priori nel ripiegamento su se stessi, in un atteggiamento anaffettivo ed equivoco all’origine, a partire dall’assenza di riferimenti. Trovo questa premessa debita per attualizzare il lavoro di Ruffilli come pure per evidenziare una rispettiva collocazione anagrafica che, per forza di cose, non può non vederlo radicato nella sua generazione. Da questa possibile duplice lettura si percepisce meglio, a mio parere, il tentativo del poeta di condurci alla condizione di una degenerata sofferenza, quella dei drogati. Una condizione che, in primis, si espleta in un lungo excursus sulle prigioni, tra “grate e cancelli” dove “fortezze scure”, un tempo “sedi del potere”, “per uno scherzo del destino” accolgono “rifiuti dell’umanità”. Ruffilli resta consapevole che un altro tossicomane in carcere produrrà, se non un’ulteriore morte precoce, un altro delinquente indotto: ”La prima notte/qui in prigione,/insieme a ladri/e protettori”. Senza indugi apre subito denunciando quella vecchia, consunta ipocrisia per cui “si fa il possibile/per questa gente”, fintanto da non risparmiare più avanti l’ancor più odioso luogo comune per cui le “prigioni sono alberghi/in cui passare una vacanza”. Rilevate alcune tinte poetiche prossime a Lee Masters nel suo versificare sincopato e prosastico, dove denuda il tossico per quel che è, coi suoi “occhi di vetro”, “miscela incandescente/nella nostalgia”, “mania di tutto/sublime e cupa all’infinito/di felicità da consumare” con “mani fredde”,”viscide di miele/senza miele” “della vita, ormai, disidratato”. Si descrive anche l’astinenza: “convulso e ansante/membra muscoli/giunture labbra e fronte,/tutto tremante” e i fantasmi della mente nelle “notti insonni”, parole che “cominciano a strisciare/più viscide dei vermi”. Accattivante lo “scivolare/nel bicchiere/o dentro la mia tazza/sciolto nel sapore/del caffé”, disilluso trasognare quel che non è stato con quanto più a portata di mano. “Sentimenti/in fuga contrastante” compaiono come “orrido male lancinante/di stare soli e nudi/con se stessi”, apertura al vuoto più celato, anche da un presunto benessere omologato, poiché la vita necessita di un’emotività compiuta. L’impegno civile viene più direttamente esternato chiedendosi “che significa punire?/E’ un patto: si arriva/a giudicare il fatto,/non la persona. Testimoniati anche “farmaci”, “gocce” e tutt’’altra “roba/che gira nel girone/della gabbia”. Nella seconda parte che demarca il libro (La sete, il desiderio) c’è la anamnesi, memoria della presunta colpa anteposta al carcere. “Non fu curiosità/e non fu noia” “i passi ignoti/del mio precipitare”, “odore di un odore/eterno/in piena fioritura/su cui di colpo/precipita l’inverno”. Un’eroina che “si ficca dentro il corpo/mettendoci radici” e che è ben resa opportuna nella metafora di un’amante negativa, che “ti svuota/fino in fondo al sangue/nell’interiorità delle interiora”. E visto che l’amore, di per sé, sviluppa endorfine e dipendenze, si comprende infine meglio la maledizione del vuoto di questi tempi.
(Enrico Pietrangeli)