Attraverso una Scala condominiale, la poetica di Vito Riviello s’inoltra tra le intercapedini di un palazzo che scandisce una comune esistenza lasciando filtrare luce per mettere a nudo un senso relegato, murato nel non senso omologante. Lo fa in modo surreale, con uno stravagante senso di moderazione, nel retaggio cubista dello scomporre tra immaginazione e presenza (in Paesaggi utilizza il “catasto” per ricostituire un reale oltre “la bruma”), ma anche con forme più colloquiali e dirette, come nel caso di Intervista, dove “l’evoluzione è come / un colpo di sole, di più, / una colpa”, in un’ironia che rasenta la vena malinconica. Una struttura linguistica elaborata per mezzo di costruzioni fonetiche in cui spesso si fa ricorso all’allitterazione con rotture semantiche che fuorviano per ricondurre altrove, in un tangibile poetico che è anche traccia escatologica dispersa nel contesto, ovvero quel microcosmo a lui più prossimo ed infarcito di luoghi comuni dei media da dove il poeta continua a percepire la presenza del “sole” e delle “stelle” ritrovando spazi per riflessioni su un divenire sempre più incerto, ma mai avaro di spiragli di “luce”. “Micro e macro”, due dimensioni tra uno scrivere che “supera la velocità / della luce”, dove la difficoltà a conoscerci, accettarci, è persino più difficoltosa del viaggiare “alla ricerca / dell’austero infinito”. Luce che, da Lontana stella, “arriva sempre dopo” e che solo “l’innocenza / pensa di poter vedere” in “lontani fuochi / fiochi lumi di stelle”, ma luce e amore sono anche humus “per terre produttive di puro creato” relazionabile ad un creazionismo evolutivo. Uno stabile, quello di Riviello, che dalle Feritoie lascia intravedere anche ferite, “escoriazioni lessicali” che oppongono giochi di parole a un’inquietudine impertinente, che vorrebbe prendere il sopravvento. Qui la “Capsula dell’io” intende “cose avverse, / non nemiche”, che “deviano i percorsi” lasciando l’inquietudine sottesa nello scandire dei giorni, simili l’un l’altro, al di là degli eventi atmosferici, per quella “stessa luce” che li caratterizza per poi, puntualmente, tornare a rinchiudersi in “una capsula crepuscolare”. Il Destino compare nell’opposizione tra condizione e desiderio, allegoria tra corvi, monti e mari per associate perdute “Marie” ripercorse in altrettante perdute donne “fra le reti dei miti / di carità cristiana”. Un rammarico, in tutto questo, resta per il Punto e virgola, occultato dai più nel timore di riaprire un discorso. Il Bacio è l’istanza all’ “eterna madre”, istinto ancestrale che si concretizza come diritto sindacale in una fisicità dell’emozione identificata con la “La secrezione urbana”, ne “l’amore visibile”, in una “traspirazione sebacea globale”. “L’ amore invisibile” necessità invece d’introspezione e spessore. Ma l’amore vero, infine, esula entrambe queste visioni e si lascia cogliere soltanto “strada facendo”.
La silloge, per la cronaca, si apre nel binomio “dettaglio” “sbadiglio” che, amplificato, conduce a “molteplici presenze”. Dettaglio ribadito, con tanto di replica del testo all’interno del libro, e che lascia comunque subito trapelare “luce” tra le ombre permeando “realtà plurime e multimediali”, “nuovi segnali” che l’autore, da sempre attento a giovani e contemporaneità, coglie puntualmente. Ma insieme a questi segnali, emerge anche una sospensione del tempo in un presente vacuo e privo di simboli propri, di quelle che rischiano di lasciare senza memoria e identità le nuove generazioni. Con Simmetrie, c’è un piano speculare fotografico e modernista che affiora, un desiderio di conoscenza che passa per la rivelazione delle forme e, nell’analisi descrittiva del fenomeno, sonda il mistero in esse contenuto, un gioco dell’occhio che, in Vestire gli ignudi, denota volute in rimandi sulle nudità dell’io con ulteriori connessioni novecentesche. Muretti ciclopici, a partire dal titolo, manifesta il paradosso volto a ricomporre dimensioni ed emozioni nell’ossimoro generato, insieme a Luglio palesa un luogo d’azione del poeta, nell’ordine la poltrona e la finestra. Da qui il poeta si rivolge direttamente ai condomini, alla loro conclamata disattenzione per un idillio celeste che il poeta percepisce come “calore” e “sole”. Un sole dettagliato in un “bacio intercomunicante”, nel riflesso di un iperrealismo cromatico della luminescenza, “quello / che appare ai coltivatori / e ai bagnati” nell’amplesso con la madre-terra. In Uno alla volta, tra “scarti cimiteriali”, “fanghiglie” ed altre immagini di più forte impatto, compare un terzo luogo d’azione: i balconi, da dove si percepiscono artefatti papaveri “colorati all’ingrosso”, ma anche “ascensori della luna”. Noè, in questa planimetria condominiale, è la constatazione di un provincialismo reso mondano con un lessico che torna ad essere più discorsivo, mentre con Escamotage il colloquiale si fluidifica in una struttura di sovrapposti pensieri estetizzanti il comico che, con la poesia dedicata Ad Alberto Savino, divengono memoria dialogica. La tematica famigliare si avverte in più punti e con diverse sfumature, c’è una cugina che insegue un “amore impossibile / scappato da un museo” mentre Daniela, definita “nomenclatura di base” con Lidia, “nel precariato in corso” è colei che “dentro e fuori” preserva un “posto fisso d’onore” al poeta. Juli, “bisnonna, / bella fragile e danzante”, porta in dote un “nitore”, che è limpidezza lucente, e scavalca il tempo in correlazioni storiche che finiscono per frantumarlo e renderlo “unico” nel suo susseguirsi, quindi “Cartagine brucia ancora” e, altrove, “il re Borbone” “visita Potenza” tra nebbie mentali” e “metamorfosi nel passo”. Ma anche in Sequenze, con “sessi” “mai fissi” e “scissi”, tutto, infine, vira all’unitario riconducibile a più forme. Un senso nel non senso o piuttosto un “senso / che si dà al non senso”, come precisa l’autore nei suoi versi, dove ogni possibile destrutturazione e riconfigurazione sembrerebbe anche ricondurre ad un’unica matrice, forzare le odierne “feritoie” del vivere per tentare ancora varchi arditi ma possibili che, attraverso lo sguardo del poeta, permettano tuttora di sondare quell’oltre che ci vincola all’esistenza.
Enrico Pietrangeli