Silvia Bove

Immater-ialità

Immater-ialità: sillabazione o gioco di rimando? Titolo, forse, non elaborato al meglio. Materica, in effetti, si condensa la poetica dell’autrice: “goccia corrosiva/scavi la roccia e arrivi”, consistente tanto nei simboli quanto nella tangibilità delle stesse immagini evocate, sostanza onomatopeica che riconduce a mater, o piuttosto in-mater. Madre che ruota, la “madre terra”, “austera divinità umana”, maternità che “soffoco nel silenzio/della mia culla”, “madre in affido temporaneo” ed anche matriarcato di “madri/signore assolute di virilità”, “madre/mia spartana”. Risaltano radici nei confessional sixteen, con la Sexton più provocatrice, dove “beffarda gli apro la porta/e gioco scandalosa una partita”, o quella infantile di “bambina/di sessualità precoce e disperata”. La Bove si presenta ieratica in un’ironia più sordida, meno esibizionista, ma con lei condivide una religiosità sovversiva, le esposizioni estatico-allucinatorie. Più che una mistica nella predestinazione, come interpretata da Vito Riviello curandone la prefazione, a mio parere si caratterizza una “mistica suicida”, che eleva ad artefice nel dualismo vittima-carnefice, negli “atomi della mia essenza” che “non si riconoscono più/e dubitano nemici/gli uni degli altri”, mimesi cancerogena implosiva. Cresciuta, “da attenta esperta musicale”, tra sonorità di spessore degli anni Ottanta, quelle agrodolci dei Cocteau Twins ma anche quelle più palesemente nichilistiche e decadenti dei Bauhaus, è un’antropofaga kamikaze pronta a divorare l’attimo  tralasciando il piacere: “non scelgo il gusto/solo l’occasione”. Tra quanti furti premeditati, vorrebbe “rubare la croce ai cristiani/per dare loro vita responsabile” e riesce persino a cogliere preveggenza di mariana vocazione nei “figli precari delle macerie di un Dio”, dove “telegrafiamo poche parole, veloci, scelte, dense/come in un tempo di guerra”. Sul versante civile l’anarchia è un “vassoio con dolci di diverso colore”, “sapore desiderato” di cui “nulla può rendere il gusto”. Punteggiatura assente o limitata ad un uso sporadico dei punti di sospensione. Flussi strutturali per lo più riusciti, personali e raggianti di un verso attento ed autentico, ma ricorrono anche punti morti, meno felici o banali, come “il poeta sente tutto/attraversato da tempeste sensoriali” oppure volti più a esorcizzare che a rendere un’immagine: “sono una bambina inviolata,/seduta a ginocchia serrate/che guarda il mondo da una giostra panoramica”. Diviene fulminante nel suo essere sintesi ermetica che si svela nella deflagrazione di “si muta in meccanico il giorno in cui scopri/che il sole è una bomba all’elio/e ciò che in superficie aveva danzato/svela il suo ingranaggio segreto, nascosto” ma poi muta in una chiusa didascalica dove “il giorno smette di essere tale” e “la tensione scientifica ci ruba tutti”. Forse manca semplicemente un’adeguata revisione, ma in questo come in altri casi non è l’autore che può farsi carico di tutto. Stampata al di fuori di un diffuso e aberrante contesto di pubblicazioni a pagamento, attraverso enti o strutture dove l’autore, per lo più, viene lasciato solo a se stesso, ha tuttavia avuto degno risalto e cornice di cronaca in occasione della presentazione svoltasi lo scorso autunno, presso il museo Canonica di Roma a Villa Borghese. Poco, a dire il vero, differenzia il coraggio o i limiti dei rari imprenditori che editano senza far sborsare l’autore. Manca, di fatto, un’editoria indipendente, capace di aggregare talenti e farli crescere. Prevale, sotto diverse forme e pressoché ovunque, l’assenza di un sincero ed imparziale impegno.
(Enrico Pietrangeli)