Massimo Gugnoni

Un’avventura su due ruote: da Rimini ai Carpazi in mountain bike
(Edizioni Farnedi)

Un viaggio nel mosaico balcanico per arrivare fino in Ucraina, ai piedi dei Carpazi. Un viaggio lento, d’altri tempi, intrapreso con la consapevolezza di riconsiderare dimensioni e portata degli spostamenti per “una crescita interiore ed umana”. Si parte, ancor prima che da Rimini, da una canzone: Born to be wild. Resta il sogno di più generazioni di adolescenti, quello di cavalcare una Harley, per poi finalmente assecondare un’iniziazione incombente, quella di una paternità imminente. La scelta della bicicletta sembrerebbe la cosa più saggia da farsi per un miglior lieto fine. Un mezzo con cui misurarsi e degustare un viaggio ben più profondo e allegorico che sempre traspare tra le pagine, quello della vita e di tutte le sue inevitabili tappe. Per me, da sempre assiduo pedalatore urbano frustrato dall’idea d’intraprendere una simile esperienza, l’impresa del Gugnoni è stata una vera e propria panacea per sognare luoghi e relative sensazioni istante per istante, momenti dove corpo e macchina sono un tutt’uno divenendo in grado di raggiungere ciò che normalmente riteniamo impossibile. Con non pochi imprevisti e i malauguri di turno di chi sta intorno, il viaggio ha finalmente inizio il 17 maggio del 2005 e, a partire dalle date che scandiscono le tappe, si ha subito la conferma di una forma diaristica a scandire gli eventi. Da Ancona si procede all’imbarco per Zara. Qui s’inizia a percepire memoria e compenetrazione storica da parte dell’autore, l’impatto con “le imponenti mura veneziane” conduce, fluido, a riflessioni sull’italianità di queste coste. La risalita rasenta Fiume, D’Annunzio e un Regno che, a Susak, segnava l’allora confine con la Jugoslavia. Talvolta si privilegiano contorni da guida descrittiva ma, nel complesso, il libro cattura attenzione e gioca molto bene sul leit motiv del futuro nascituro, intessendo una suspence finale rosa degna di valori, umanità e, soprattutto, di possibilità di crescita. A Karlovac giungono entusiasmanti notizie, due quotidiani romagnoli riportano articoli sull’impresa. Poi, con l’approssimarsi della Bosnia, tuttora linea di demarcazione culturale tra retaggi Ottomani e quelli degli Asburgo, compare il fantasma della guerra, di quanto ne permane ancora impresso nei segni: case trivellate o abbattute e la sinistra presenza di avvisi “mine – ne prilazite” ad indicare un campo minato. Tra i cartelli primeggia comunque un “numero impressionante” di “prodaje-se”, ovvero vendesi, a marcare le “pulizie etniche” succedutesi in quest’area geografica. La piaga dell’alcolismo, in questo clima, non risparmia neppure gli adolescenti, “dimostrano almeno dieci di più, con il fisico magrissimo e sbilenco e le facce sciupate”, poco o nient’affatto dissimili dai nostrani eroinomani conclamati. Jasenovac testimonia con un monumento un campo di sterminio di “fascisti croati”, la Slavonia, ex stato fantoccio di Milosevic, riporta alle più recenti deportazioni, Vukovar è un colabrodo senza più il suo illustre centro barocco. Quindi la Serbia con le sue Yugo del socialismo reale e Timisoara, vero e proprio crogiuolo di razze, dove, tra gli altri, oltre a magiari troviamo radicati persino tedeschi. Ma Timisoara, quella dell’ultima ora, sembrerebbe soprattutto italiana, parla veneto ed è un pullulare di attività come invece non sono le campagne circostanti, ancora piuttosto povere ed arretrate. ”L’impatto con l’Ungheria provenendo dalla Romania è l’equivalente del passaggio tra l’Italia e la Svizzera”. Beregove, in Ucraina, con i suoi “inquietanti edifici di cemento armato”, retaggio “di una qualsiasi città ex comunista”, riporta i ricordi d’infanzia a Gorizia, l’altra Berlino divisa in due e da tutti dimenticata. Ai piedi dei Carpazi Leopoli si lascia intravedere nel ricordo dei nostri alpini che vi “combatterono tragicamente”. Epilogo con Miss Ucraina in Tv, roba da mozzafiato, e l’inaspettata nascita prematura a far crescere la tensione con un viaggio di ritorno da strapazzo, in uno dei tanti pullman affollati di emigranti rumeni.
(Enrico Pietrangeli)