I Cold War Kids sono l’esempio pratico e spirituale di come gli Stati Uniti abbiano prodotto la migliore musica rock e pop, (ma attenzione, pop come popolare, ovvero una musica vicina alla gente, che comunichi con verità d’animo e semplicità letterale), del XX secolo.
Il concerto della band californiana ci ha mostrato visualmente ciò che i loro album esprimono. Quei suoni riverberati, quei ritmi frantumati con stop n go, quelle melodie così soul richiamano alla mente decenni di musica tradizionale americana suonata da artisti, folkers, emarginati, beatnicks che come menestrelli raccontavano i drammi del paese, denunciavano ingiustizie attraverso fatti d’attualità, narravano storie intime d’amore o tragedie familiari e interiori.
Ecco perché nelle corde dei quattro americani ci saltano Bob Dylan, Billie Holiday, Joan Baez, Woody Guthrie. Nel live We used to vacation, Hang me up to dry s’incastonano in un tutt’uno con i nuovi pezzi di Loyalty to loyalty.
Potente e sporca ulula la chitarra di Jonnie Russel nel blues urbano Mexican dogs, Bed hospital, la più melodica della compagnia, viene strattonata nello stesso modo in cui il cantante Nathan Willett pesta il pianoforte. I ragazzi di Fullerton ballano e fanno a lite con i propri strumenti senza sbagliare una nota. Il pubblico trema con I’ve seen enough e tutta la banda interpreta fisicamente lo sterytelling allucinato e ombroso di Willett, muovendosi convulsamente sul palco. Il blues metallico e scheletrico dei CWK emerge sempre più duro e selvaggio sino a culminare con Something is not right with me. Ma il meglio arriva nel bis con Saint John, scheggia impazzita di soul e rag time.
Applausi e tripudio per un gruppo che interpreta la musica tradizionale americana infarcendola di suggestioni letterali che vanno da Faulkner a Kerouac, per citarne due, come quasi nessun’altro in circolazione, sia nel momento della scrittura che sopra il palco.
(Tommaso Floris)