Here I Stay Festival è una realtà, giunta alla terza edizione quest’anno, che si è materializzata dal nulla ed è cresciuta col tempo per qualità grazie ad un manipolo di giovani che naviga controcorrente e contro varie difficoltà. Una piccola nicchia dove ci si rintana per tre giorni in un isola dove spesso tutto tace. Tre giorni di divertimento e goduria per le nostre orecchie. Un ambiente famigliare, dove tutti sembrano amici, dove il dictat indie non è neanche conosciuto, dove la buona musica impera.
Nessuna della band delude le aspettative, ma al contrario si fanno piacevoli sorprese. È il caso dei Il Moro e Il Quasi Biondo che suonano un’elettronica fatta di melodie rarefatte, suoni giocattolosi ed esotici campionati e realizzati con voci e strumenti d’ogni sorta. Canzoni che con un piglio pop a volte più serie altre ironiche conquistano, come quelle di Vanvera ovvero Mauro Vacca. Blues e new wave e una lista di nomi lunga un kilometro. Un approccio composto sul palco, una serie di battute a rallegrarci e poi le canzoni, oscure, potenti, poetiche. Sull’altro palco attirano l’attenzione i Lupe Velez, quartetto che nasce a Cagliari nel 2002. Sonorità in bilico tra un pop contorto e ispido e un noise sonico con incursioni nel post rock. Raccolgono plausi anche i Vermillion Sands, quartetto italiano che ha esordito quest’anno per la Rijapov records. Canzoni elettriche e acustiche, folk e country con una buona dose di punk, non male anche se ci sono sembrati ancora bisognosi di un bel rodaggio sul palco. Tutt’altra storia per i Lush Rimbaud. In quattro provenienti da Ancona hanno rapito i presenti con un vortice di ritmiche ossessive e devastanti. Terrorismo psichedelico ed electro wave con chitarra ululante e synth acido e deboradante. Una bella storia. I Dos Hermanos sono un’altra scoperta stupenda. Duo molto low-fi che dalla Germania mette in piedi un ponte verso il Messico. Country, folk trash stonato e cantato a squarcia gola ed è subito festa. Grandi. Per quanto riguardo gli Enon è la loro fama che li precede a parlare chiaro. Spigolosi e devastanti, con ondate di noise deragliante e voci isteriche. Un’ora di estasi che vorremmo non fosse durata così poco. È Mynerdpride a chiudere la giornata di venerdì con la sua musica a 8 bit epilettica. A noi bastano dieci minuti per togliere il disturbo e riposarci in qualche angolo in attesa del dj set di Dj Nitro.
Il giorno dopo è Bob Corn ad aprire il festival. Folk e liriche che ti sciolgono il cuore, chitarra e voce, non serve altro a capire che per fare bella musica serve poco. I Plasma Expander aprono la festa con la loro musica d’assalto nata da continue improvvisazioni noise e psichedeliche dove spesso emerge il rock’n’roll e il blues libero da qualsivoglia schema. I Father Murphy intrecciano per bene le voci, la batteria, la chitarra e l’organo generando un sound semplice, artigianale e allo stesso tempo avanguardista per gli stacchi improvvisi, la voce stridente e assonante. In tre per una musica epica e indescrivibile, tra il dada e il surreale. Cambio di palco e abbiamo di fronte gli Hell Demonio che suonano una miscela distruttiva di punk e rock, tra Stooges e Black Flag con risvolti math rock e un aria insana e malata. Non ci convincono invece gli Edible Woman. Melodie ultra noise che suonano ripetitive ed esageratamente cacofoniche. Anche la voce stessa aumenta il tono di generale apatia. Si rifanno vivi in Sardegna i Mojomatics ma con una novità, un nuovo bassista che da alle canzoni un suono più rotondo, pieno. Solita grinta e tanto groove nel sangue. Terminano la serata i Love boat, formazione sarda fresa di pubblicazione per la Shake Your Ass records, che con il loro Bubblegum garage, un garage pop che non evita di incrociare per la strada il punk, infiamma gli animi e trasforma un’ora della serata in pura follia.
Purtroppo manchiamo al terzo giorno con nostro profondo rammarico anche per l’atteso, da parte nostra, live dei June. Ma con sole sette ore di sonno sulle spalle in due giorni il fisico non ha retto e ha vinto la stanchezza.
(Tommaso Floris)