Bob Log III, dio delle one man band, unico discendente dei santi Link Wray e Hasil Adkins. Bob ha richiamato tanti fedeli in raccolta e tutti vogliamo la sua merda nelle nostre gambe. Ci arriva subito come una scarica di diarrea quando entra nel palco indossando uno simil smoking e suonando due pezzi veloci come il vento. È la sua irruenza, la conoscenza di certa musica che sfoggia con disinvoltura a farci schiavi. Bob è un virtuoso, ma la sua tecnica appare semplice quanto elementare così come il punk. D’altronde lui non è che un ottimo interprete, perché punk già lo era Hasil molto tempo prima di lui. Si sfila l’abito e scopriamo une delle sue tute da combattimento anni ’70, kitch e ornata di scritte brillantinate che inneggiano il suo nome. Imperterrito stupra la sua chitarra, la sodomizza, urla sguaiatamente e volgarmente dentro il suo casco d’aviatore. Tra un effluvio di bestemmie recitate in inglese, di cui una di esse sale alle nostre orecchie nel nostro idioma come una preghiera, arriva il culmine quando alle spalle del musicista un ridicolo e triste quanto fantastico teatrino nasce forse per esibizionismo forse per idolatria. Alcune ragazze e un ragazzo ballano e avvicinano Bob come fosse un animale in via d’estinzione. Una di loro mostra una tetta senza pudore dopo Boob Scotch e con una amica cavalcano poi le ginocchia dell’ ”amerigano” durante I Want Your Shit On My Legs (spettacolino che Bob ripete in ogni suo concerto) ed è un tripudio di seni sballottati un po’ dappertutto per la gioia dei maschi in calore, quindi praticamente tutti. Bob marcia come un militare in guerra e il live sembra non finire mai. Abbandona la battaglia per farvi ritorno quasi subito. Scende dal palco e suona in mezzo a noi. Saluta nuovamente e quando tutto sembra finito torna ancora per un’altra manciata di pezzi, ma questi sono veramente gli ultimi. Come dicono i giapponesi “La vittoria è di chi sa soffrire un quarto d’ora di più” e oggi Bob ha vinto su tutti i fronti.
(Tommaso Floris)