Mi dicono: “gli EELS a Roma, ci sono gli EELS a Roma!” e io “ahhh, e quindi?”
“quindi ci andiamo” e io “ahh non so”
“e no, biglietto regalato” e io”ahhh,allora ok”.
Senza rendermene conto ero già entrata nel lessico “eels-esco”, infatti il cantante per quel poco che parlerà utilizzerà spessissimo euforismi quali ahh,ehm ,ohhhh.
Il concerto durerà 2 ore e mezza anche se diviso in due parti: la prima documentario-visiva , la seconda cantata.
E mi è piaciuto parecchio, davvero.
La parte autobiografica serve a capire meglio il percorso musicale degli Eels, spiega il testo di molte loro canzoni. Mark, il cantante, è figlio di Hugh Everett III, colui il quale formulò per primo nel 1957 l’interpretazione “a molti mondi della meccanica quantistica”, detta anche multiverso. Davvero affascinante.
Attraverso la proiezione di un video Mark viaggia e ci fa viaggiare con lui alla scoperta del padre, morto per un attacco di cuore quando lui era ancora piccolo, e con l’ausilio di foto, racconti, vecchi appunti e libri il cantante fa, e ci fa fare, un salto nel passato, alla ricerca delle sue radici. L’importanza del sapere chi si è e da dove si viene la si trova subito nella prima canzone della scaletta: “Railroad man”.
E sapere di essere figli di un genio deve essere impegnativo… A me ha fatto effetto: il primo quarto d’ora del concerto ero più affascinata dal fatto che fosse il figlio di Hugh Everett che non tanto il leader del gruppo ma poi col tempo sono stata catturata dalla loro bravura, non tanto canora, quanto musicale e il suo genio padre mi passa in secondo piano.
Gli Eels, sostanzialmente una one-man band, in questa occasione si fanno accompagnare da “The Chet”: un tipo che con gli strumenti ci sa proprio fare. Infatti con una calma impressionante si intercambierà tra il suono di una chitarra e di un pianoforte per poi passare alla batteria e finire con il suono di una sega. Non capite male, proprio una sega. Il tutto durante una singola canzone. Affascinante, davvero.
La cosa diventa ancora più straordinaria quando Mark, stufo di suonare il suo pianoforte nella canzone Flyswatter , decide di suonare la batteria al posto di The Chet ed eccolo che con la mano prende il ritmo, poi una bacchetta, poi l’altra e il gioco è fatto. Senza perdere una battuta. Il pubblico esterrefatto si rilassa sulle poltroncine dell’auditorium, nota stonata per un concerto rock, ma ecco che The Chet stanco di suonare il pianoforte al posto di Mark inizia a prendere il ritmo con la mano, si avvicina alla batteria, prende una bacchetta poi l’altra e il gioco è fatto. Senza perdere una battuta. Bravi.
Comunque la vita di Mark non è stata facile: il padre morto per un attacco di cuore, la sorella morta suicida a causa della depressione, la madre morta di cancro. Il dolore di questi fatti si proiettano sui toni delle sue canzoni e sul suo carattere un po’ così… timido? Introverso? Particolare? Non so ben definirlo, fatto sta che quando decide che il concerto è finito così è, e vani sono state le suppliche di bis da parte del pubblico. Niente. Fine. Tanti saluti senza nemmeno la buonanotte. Si accendono le luci, la gente pigramente si stiracchia e si alza dalle poltroncine.
Un’atmosfera particolare per essere stato un concerto rock, ma non credo si sia fatta meraviglia in quanto dal figlio di un genio fisico quantistico ci si può aspettare davvero di tutto. Si entra per ascoltare musica e si esce con la teoria dell’universo parallelo ben chiaro in testa. Geniale, davvero.
(Chica)