L’atmosfera è la stessa di un party di Hallowen. Mi guardo intorno ed osservo un ragazzo con i capelli neri perfettamente cotonati, vagamente riconducibile all’haircut di Robert Smith, solo che nei suoi occhi non si scorge nessuna parvenza di sentimenti dark. Discute animatamente con un collega in camicia nera e gilettino a pois (bianchi su fondo nero). No, non sto per assistere ad un concerto dei Cure, mi dico, altrimenti cosa ci farebbe qui quel punk con la cresta fucsia che parla con un signore che somiglia a Ozzy Osbourne? Ognuno indossa il suo bel costume e tutti non vedono l’ora di vedere uno dei gruppi più orribilmente glamour della Gran Bretagna. Un po’di sana confusione postmoderna regna sovrana.
Aprono la serata i Dandi Wind, e grazie al cielo la richiudono subito. Sono un duo formato da tastierista androgino e cantante che sarà ricordata ai posteri per il suo deretano (così dicono, io mi astengo dal giudicare), che appunto non canta ma strilla isterica sopra una base hardcore. Poi finalmente le luci si spengono, supero l’ultima sbarbina vestita come Emily the Strange e mi posiziono in transenna, ansiosa di vedere questi orrori, che poi dalla copertina dell’NME così orrori non sembravano. Il palco è illuminato da un fascio di luce crepuscolare e i cinque fanno la loro spettrale entrata in scena. Il cantante Faris Rotter, altissimo e dai capelli ultracotonati, regge in mano una radiolina anni ’80 gracchiante, sulle spalle un mantello (collezione Nosferatu primavera-estate). Davanti a me si posiziona il vero eroe della serata, il tastierista, che fa davvero paura, tant’è vero che quasi quasi mi vieni voglia di svignarmela dalla transenna. Si muove come un ragno. Poi scopro si chiama, non a caso, Spider Webb e costui da solo tiene in piedi la base musicale noise-punk-dark-garage del gruppo.
E mentre il ragnesco tastierista, capelli nero pece tagliati a scodella, occhi spiritati, pigia senza delicatezza alcuna, le sue bianche dita sulla funerea tastiera (che da grande sarà un organo in una cattedrale gotica), il bello e maledetto frontman urla il ritornello di Jack the Ripper (cover di Link Wray), sbraita Excellent Choise, ulula alla luna Sheena is a parasite (cui Chris Cunningham ha girato il videoclip) , mentre tutte le dark-donzelle della dancefloore si agitano visibilmente eccitate, immaginando di essere la Sheena che quella note succhierà il sangue a Faris. Una novella draculessa gli butta sul palco delle candide mutandine in pizzo binaco. Il frontman le afferra e se le mette perversamente in bocca. Poi, per la cronaca, le risputa.
Il concerto dura solo 50 minuti, giusto il tempo di sentire gli altri pezzi forti del loro unico album “Strange House”, quali Gloves e Little Victories, e assistere al solito teatrino del cantante che si getta tra il pubblico per farsi palpeggiare dalle fans in calore (e non solo). Però sono bravi, è da riconoscere, ed hanno una spiccata attitudine post-punk, a prescindere dalla loro presunta autenticità nelle intenzioni. E’ da aggiungere che un gruppo chiamato The Horrors già esisteva, sono americani ed hanno pubblicato un album punk-blues nel 2003, ma probabilmente non hanno avuto successo perché loro non avevano i capelli fonati al punto giusto. Perché come suggerisce un ribelle senza causa dei nostri tempi: “If you want to win in this game/You got to have the luck/You got to have the look”.
(Laura Fontana)
Recensione 2#
Sono sdegno di rabbia e colgo l’occasione per parlare di uno dei tanti gruppetti senza arte ne parte che invadono il mondo a suon di copertine patinate. I giovani in questione sono gli Horrors acclamati da riviste musicali e schiaffati sulla prima pagina di giornali di moda. D’accordo, hanno inciso un disco niente male che richiama alla mente la violenza e l’isterismo di una band come i Cramps, ma il problema sta poi nel proporlo live. Sul palco la loro musica non è così importante: il look è quello giusto. Un ora di fischio continuo con una voce che blatera parole incomprensibili. Tralasciamo il fatto che non sappiano suonare, anche i Count Five, i The Gories non possedevano mica tutta sta tecnica. Negli Horrors si tratta di mancanza di sostanza, di contenuto. Un live di 30 minuti striminziti, senza nessun bis, nonostante sia stato richiesto a gran voce. Non esiste new wave, dark, rock’n roll, punk, niente di tutto questo, forse un noise e non dei migliori. Suonano Sheena is… e non ne comprendiamo una nota, né il ritornello. Non c’è differenza dai quei gruppetti indie spacca palle che spezzano il cuore alle ragazzine alternative. In sala una marea di cloni degli Horrors che forse non hanno mai sentito nominare Link Wray o i Back From the Grave o ancora i The Monks e i The Syndicats. Skip James era fottutamente più punk di tutti ‘sti cinque inglesotti messi assieme. Per la cronaca i veri Horrors erano dell’Iowa, hanno registrato due album (Vent è un album da avere assolutamente) e si sono sciolti nel 2003. Tre operai disperati che suonavano un punk blues da panico. Hanno pubblicato per la In The Records, una delle etichette migliori in circolazione che vanta nomi quali Bassholes, Jay Reatard, Pussy Galore ecc. Fatevi un giro nel sito (www.intheredrecords.com) e mettete il naso tra una band e l’altra. I Black Lips sono di casa qui e assistere ad un loro live è come avere un triplo orgasmo (per chi non se li è beccati a Roma può vedere riprese varie dei loro show su you tube), altro che fantocci con jeans attillati e capelli ben fonati.
(Tommaso Floris)