Love Is All – Roma 29/05/07 @Micca

Love is All, l’amore è tutto. Così hanno deciso di chiamarsi questi ragazzi venuti dalla Svezia, patria di una musica indie-rock vera e sanguigna, differente da quella inglese, troppo pompata da giornali che spacciano per geniali band che magari hanno composto una canzone sola. Il loro live al Micca Club, chiude così la felice stagione del “Fish&Chips live Experience” che quest’anno ha proposto una serie di concerti di alto livello come Theoretical Girl, Neon Plastix e Black Wire. I Love is All, formazione che è in giro già da quasi dieci anni, sono stati segnalati anche da Pitchfork, famoso critico musicale che ha lanciato gruppi come Clap Your Hands Say Yeah, e con ottime ragioni visto che il loro album, Nine Times That Same Song, è stato uno dei più apprezzati del 2006, un vero concentrato di indie, punk e ska con influenze di gruppi come Jesus & Mary Chain e My Bloody Valentine. L’acustica perfetta del Micca rende il suono dei ragazzi svedesi incredibilmente pulito rispetto all’album, che risulta più sporco e ruvido. Aprono con la trascinante Talk Talk Talk, irrequieta e dal ritornello irresistibile per proseguire con Ageing Had Never Been His Frien, che scalda il pubblico selezionato del Micca e che si lascia poi travolgere dal ritmo frenetico di Used Goods. Si prosegue con la più melodica e dolce Turn the radio off (di cui spero non seguirete il consiglio), dove la piccola frontwoman Josephine Olausson fa sfoggio delle sue doti canore, in quanto riesce a raggiungere tonalità molto alte, anche se secondo chi scrive sarebbe più indicata a fare la seconda voce. Ma questo dettaglio è ampiamente compensato dalla sua presenza scenica. La Olausson sembra un folletto, piccola e minuta, salta da un lato all’altro del palco, suona tastiera e synth, ma anche altri due strani strumenti che la rendono ancora più folletto: una campana di legno il cui batacchio è costituito da una drumstick e un fischietto. Il live prosegue con Spinning and Scratching, tra le più apprezzate dal pubblico insieme a Make out Fall Out Make up, che conclude un concerto perfettamente suonato, dinamico e velocissimo, durato poco meno di 40 minuti. E’ proprio vero. Quando c’è amore c’è tutto… (Laura Fontana in “l’amour est tout”…)

che lascia le sue tracce anche dopo molti lavaggi. Sporco Impossibile si fa promotore di serate e di band che hanno a che fare con il mondo indipendente, band di grandi qualità spesso e volentieri sottovalutate a favore invece di qualcosa che fa tendenza. La serata di chiusura organizzata al circolo ha visto protagonista della scena i Volcanoman, Canadians, Fake P e Rodion. I primi vengono da Roma e fondono nel loro sound una serie di generi tra i più disparati, dal rap rock che molto ha a che fare con gente come i Rage Against the Machine sino ad arrivare a coretti in falsetto dal sapore pop. I quattro sprigionano una grande grinta ed energia e coinvolgono tutto il pubblico nel loro delirio. Con i Volcanoman si balla e si poga con delle melodie aggressive e travolgenti. I Canadians sono tutta un’altra storia. Vi ricordate il primo disco dei Weezer. Ecco io quel disco l’ho divorato. Le musichette che strizzavano l’occhio al grunge e al rock’n roll degli anni ‘50, i mitici ritornelli come quello di Buddy Holly. I Canadians sembrano dei Weezer camuffati da Beach Boys o, azzardo, dei Grandaddy che fanno l‘eco ai Built to Spill, è irresistibile non cantare con loro e le canzoni non si limitano al solito schema strofa – ritornello, la struttura di ogni composizione si dilata e va in crescendo. I Fake P sono la svolta della serata. Dal vivo sono ancora meglio che sul disco. Si scambiano spesso gli strumenti e paiono concentrati. Danno origine a una sorta di teatrino electro pop con trombe di varie dimensioni, tastiera, chitarra e basso, Qwerty è un pezzo spettacolare che ci trasmette delle sensazioni profonde. Una bella performance che arriva al suo culmine con l’ingresso sul palco dei Canadians per un hand-clap che fa da sfondo ad una ballata solo voce e chitarra. Giungiamo al termine con Rodion e la sua elettronica tutt’altro che minimale. Un poco di french touch e in tasca l’ethos “harder-better-faster” (più duro-più bello-più veloce). Si balla sino alla fine e s’abbandona il club con tanta speranza per la musica italiana. Di gruppi che spaccano c’è ne sono tanti nel nostro bel paese e per fortuna c’è qualcuno che ci crede, in tutti i sensi.

(Tommaso Floris)