Deltahead – Roma 08/03/2007 @Locanda Atlantide

Sono sdraiato nel letto e ascolto Bukka White e ripenso alla serata di ieri notte, quella alla Locanda Atlantide con i Deltahead, un duo che suona la musica dell’inferno come se fossero degli alieni che da anni e anni ascoltavano su un pianeta sperduto nell’universo il delta blues, quello pre-guerra di dannati come Charley Patton, Blind Willie Mctell, Dock Boggs ecc… Una musica schietta come uno sputo in faccia, oscura, potente, mistica, trascendentale, punk. Uno sgabello, una chitarra acustica e spesso e ben volentieri uno slide che corre all’impazzata sulle corde, una voce profonda, arrabbiata, sconfortata, felice, triste, una voce vagabonda, il Delta blues suonato nel sud degli Stati Uniti, maledetto, eterno ed effimero. E io sono lì davanti a questi svedesi, ma in realtà so che la loro provenienza è solo una copertura, la Svezia, una terra fredda, gelida, selvaggia, la terra dei pirati che veneravano Wotan o Donar così come Skip James lo faceva tutti i giorni col diavolo, normanni, uomini del nord, questi due vareghi o rus, so che in realtà un tempo non molto lontano ci guardavano dal loro pianeta deridendoci per le nostre contraddizioni e per la nostra stupidità. Questi alieni sono i Deltahead, uno alla chitarra e uno al contrabasso e quattro gambe che sgambettano furiose su charleston e grancasse, io sono di fronte a loro eccitatissimo, loro scendono dal palco per presentarsi, stringono la mano un po’ a tutti e donano un bastoncino acceso d’incenso, non mi piace il profumo dell’incenso, ma neanche sento l’odore, siamo nei decenni che vanno dai 20 ai 40, loro indossano un completo con gilé senza giacca, davanti alle loro enormi grancasse perfettamente allineate, hanno il cerone sulla faccia e un trucco scuro sulle labbra e sulle palpebre, cinema muto anni 20, Buster Keaton, un grosso affare in mezzo a loro, pare un mobile o uno strambo megafono amplificato composto anche da una piccola lanterna accesa, l’atmosfera è completa. Sento le note di I Smile at You, non ci credo e sono gasatissimo, stracanto con loro a squarciagola, è come se ti stessero massacrando a sangue, ma ti piace perché hai preso tanta di quella benzedrina da riempirne un vagone… “I smile at you, take the money and fuck you in the…” Porca puttana mi sento in cielo e continuo ad urlare, ma arriva il singolo del disco, “Mama was too lazy to pray” ed è un delirio cosmico, siamo tutti nell’universo, nudi come mamma ci ha fatto e guardiamo gli altri rimasti nella terra e sono piccoli come formiche. Non muoverti verso la Finlandia, Ascoltami ora!!! Cantano i Deltahead mentre lo slide scivola per strade tortuose, loro scendono ancora dal palco e ci offrono il popcorn e tirano coriandoli dalla tasca, in sottofondo una musica da luna park, sembra di stare nel film di Tod Browning, ma siamo tutti felici perché è ancora festa mentre urliamo “Love me, Follow me!” una manciata di parole per esprimere tutto, le parole non portano a nulla, Dadaismo e Cabaret Voltaire, Man Ray e Jean Cocteau, surrealismo, surrealismo blues, tutto è meccanico nella nostra epoca sembrano dirci le voci dei Deltahead, distortissime, direttamente dall’oltre tomba e io sono ancora lì e sto bene e tremo per i brividi e penso a quanto è triste tutto. I Deltahead vanno dietro le quinte, ma non è ancora il momento di abbandonarci, riescono con delle maschere bizzarre, solo Budda sa dove sono andate a pescarle e trema ora la loro voce lenta e densa “Why we all get down… “. Salgono sul loro sgabello in piedi e s’inchinano, un applauso lungo una vita, tutti ancora non credono ai loro occhi, eppure si, esiste gente così, e allora penso che in un’ora e poco più si può fare molto, forse più che in tutta una vita. Ci parlo un po’ e mi sento un poco fanatico, piglio due magliettine, una per me e una per il mio miglior amico e rimango ancora lì, so che è stupido, ma riesco ad immaginarli, questi vagabondi del Dharma continuano il loro tour come due pazzi Merry Prunkster professando il blues, tanti saluti Deltahead. Saluto Andrea che ho conosciuto la sera stessa e con cui ho fatto una bella chiacchierata sulla musica, lui continua ancora ad agitarsi, io esco dal locale e mi dimentico di tante cose, sono tornato indietro di dieci anni, quando nel mio mondo esisteva ben poco, sono un bambino spensierato e mi sento come la prima volta che ho sentito John the Revelator, felicemente triste.

(Tommaso Floris)