Bologna è fresca e agitata come al solito, la gente corre da una parte all’altra come se il tempo a loro disposizione stesse per esaurirsi. Già dalle cinque di fronte al palazzetto s’incomincia a formarsi un corteo, verso le 6:30 il pubblico, numeroso, si divide in due lunghe file che paiono due serpenti costituiti da degli organi nettamente differenti tra loro, abbiamo i giovani adolescenti devastati e investiti dalla MTV culture, ci sono poi i garagisti che fanno bella esposizione di spillette e converse stracciate e poi per finire individui che non ti saresti mai aspettato di trovare ad un evento del genere, ma è sempre meglio non giudicare dall’aspetto, l’abito non fa il monaco. Alle 7:30 s’aprono i cancelli e lo stadio viene lentamente invaso e nel giro d’un’ora e mezzo ogni spazio libero è occupato. Alle 9 spaccate (chi c’è c’è, chi non c’è non c’è) fanno il loro ingresso sul palco i “The Green Hornes”, una chitarra, un basso e una batteria. Efferati e precisi come la lama di un killer, veloci quanto Billy the Kid lo era nel premere il grilletto. Propongono delle magnifiche cover e pezzi originali con un’ottima tecnica strumentale, mentre il batterista fracassava le pelli, il bassista si trasformava in un polipo e il chitarrista emanava vibrazioni d’un blues acido. Il pubblico è andato in visibilio mentre i Green fondevano nel mezzo d’un pezzo il blues e il jazz in un miscuglio denso e psichedelico. Il loro live set dura appena venti minuti e quando questi escono, i tutto- fare dei fratelli White, rigorosamente in completo rosso-nero, smontano e rimontano il palco che assume i caratteri d’un teatro degli anni d’oro americani, dei palmizi bianchi sono disposti per tutto il palco e sopra gli amplificatori delle statuette da soggiorno stridono nel contesto che appare esotico. Sullo sfondo si staglia una grande mela che sembra discesa dal cielo sulla terra. Quando finalmente tutto è pronto Jack si presenta con disinvoltura sul palco: “questa è mia sorella Meg, io sono Jack White”. Come se non sapessimo chi sono. Partono le prime note di “Blue Orchid” e il pubblico s’infiamma, ondeggia da una parte all’altra e crisi di panico nascono immediate tra alcune ragazze. Invece di fare tanti giri di parole preannuncio subito che le striscie bianche non deludono, ma allo stesso tempo non convincono. Inutile dire che Meg si limita alle sue quattro battute, mentre Jack si lancia continuamente in virtuosismi chitarristici. I due fratelli mancano per incisività, graffiano, ma non riescono a scalfire, la loro è una ferita che si rimargina troppo presto. Durante il live passano in rassegna più o meno tutti i singoli e rispolverano una stupenda “Stop Breaking Down” e altri pezzi vecchi. Jack, come al solito, propone uno schema fisso, quello d’includere una canzone dentro un’altra, sistema che ti sorprende, se non fosse che a lungo andare crea confusione tra il pubblico e pare d’ascoltare un minestrone sonoro. “Cold Cold Night” fa cantare tutto il paladozza che poi con enorme entusiasmo richiede con un coro “Seven Nation Army”. Il pezzo smuove quel oceano umano riversato davanti al palco che non ne ha ancora abbastanza e ha l’aria di poter continuare per tutta la notte. Purtroppo per loro il concerto dura una misera ora e mezzo e i White Stripes abbandonano il palco salutando la platea e ringraziandola calorosamente. Fuori dal paladozza le gambe fanno fatica a reggersi, ma abbiamo ancora il tempo per essere intervistati da una ragazza riguardo i testi della band. Questa era pienamente convinta che il pubblico fosse all’oscuro del significato delle canzoni. Un buon 70% penso faccia parte di quella schiera, gli ho risposto io, ma in fondo non aveva mica tutti i torti.
(Tommaso Floris)